A Real Pain inizia e finisce in un aeroporto, (non) luogo di transizione e concentrazione dei passeggeri, con la figura di un volto solitario che rappresenta, sottotraccia (tra le note pianistiche nel commento sonoro), una pena nel cuore, un sottile ma acuto dolore dell’anima.
Gli occhi, che tradiscono un evidente disagio, sono di Benji (Kieran Culkin da Oscar), un corpo e uno spirito persi nel (proprio) mondo. Egli non ha (e non cerca) un lavoro, vive di emozioni “senza pelle” ossia privo di alcuna barriera a protezione della sua sensibilità, si muove iper-attivo. Il cugino David, decisamente più compi(u)to, è un timido informatico che opera su internet (Jesse Eisenberg si ritaglia un ruolo che non può che evocare il “suo” Mark Zuckerberg in The Social Network) e abita in un accogliente appartamento di Brooklyn con moglie e figlio.
I due hanno organizzato un viaggio in Polonia per ritrovare i luoghi in cui è vissuta la loro affettuosa nonna, da poco scomparsa e provata dalla tragica e traumatica esperienza del campo nazista di Majdanek a est di Lublino. Essi parteciperanno ad un tour itinerante con altri turisti in cerca delle loro radici ebraico-polacche. Emergerà un rapporto contradditorio ma solidale all’interno del gruppo con Benji interprete di situazioni imbarazzanti e commoventi.
La sequenza che rivela i profondi sentimenti identitari di David e Benji è quella che li vede davanti alla porta dell’avita casa nei pressi di Varsavia. In quella soglia, da non oltre-passare per rispetto dell’intima “memoria” familiare che si vorrebbe onorare con alcune pietre che sembrano impronte davanti ad un monumento (tombale), si ri-conoscono due persone comuni dentro un posto “ordinario”, fuori da ogni immaginazione.
La Storia con la “s” maiuscola, con la sua narrazione meta-fisica, si presenta imponente, immaginifica ma di fatto si realizza nelle piccole manifestazioni della quotidianità, in un sito qualunque, in un’anonima dimora che assume un significato solo per chi vi risiede. La regia è transeunte, sorvola su semplici edifici, su strade e stanze poco caratterizzate simili agli interstizi in un campo di concentramento con le camere (a gas) spoglie, bagni (baracche) e forni (crematori) che si distinguono esclusivamente per la (macabra) funzionalità.
Il lungometraggio si trova in una terra di mezzo (tra Europa e America), che si perde nella “costruzione” di ricordi/ricorsi, esistenti nella misura in cui hanno lasciato segni “lapidari”. Luoghi non (più) definiti e parole non (più) pronunciate determinano immagini essenziali e un tratto tenue come la fotografia di Michał Dymek.
Lo sguardo del cineasta statunitense di origine polacca in-quadra le performance attoriali dei singoli personaggi (anche le proprie quando si riserva un monologo in-centrato sull’autenticità dei nostri “cronici” affanni esistenziali, sulle superficiali abitudini foriere di un indicibile tormento umano anestetizzato), in particolare i folli deliri verbali e mimici del giovane (e talentoso) Culkin a volte contrappuntati dalle poetiche partiture del “romantico” Chopin, nato a Zelazowa Wola, poi trasferitosi e deceduto a Parigi con la sofferenza dell’esule.
Nei titoli di testa è riconoscibile il popolare Notturno in Mi bemolle maggiore, op. 9 n. 2, prologo dalle idilliache e avvolgenti armonie (l’incontro tra Benji e David è cordiale e denso di aspettative), mentre in coda si ascolta la struggente e melodica Ballata n. 2 in Fa maggiore, op. 38 (il finale vuole essere ri-conciliante senza essere retorico). Nella colonna sonora ci sono inoltre i raffinati Études/Studi per pianoforte del compositore polacco, sublimi esercizi che “tracciano” in modo esemplare i cangianti umori legati alle sue vicende personali, ideali per sottolineare la mutevole sfera emotiva dei protagonisti del film nel corso degli eventi.
La pellicola di Eisenberg va avanti (anche dopo l’ultimo fotogramma) come i treni (della mente) nella notte (dei tempi).