Dopo alcuni cortometraggi, video e altri audiovisivi, la regista A. V. Rockwell debutta al lungometraggio con A Thousand and One, un intenso dramma familiare vincitore del Gran Premio della Giuria per il per il Miglior film drammatico americano al Sundance Film Festival 2023. Originaria del Queens, Rockwell sceglie di raccontare la Grande Mela da dentro, seguendo una piccola storia tra tante che diventa l’emblema di una città lontana e distante dai problemi di buona parte dei suoi abitanti, abbandonati troppo spesso a sé stessi e costretti a “mille e uno” modi per vivere o sopravvivere.
Ambientato a New York tra gli anni Novanta e i Duemila, A Thousand segue le vicissitudini di Inez, parrucchiera di Harlem che uscita di prigione incontra il piccolo Terry, un bambino in affidamento che sottrae ai servizi sociali e nasconde crescendolo quale effettiva genitrice biologica che lo aveva abbandonato perché giovane e spaventata.
Rockwell sviluppa così un’idea di famiglia particolarmente vicina a quello del contemporaneo Hirozaku Kore’eda, maestro giapponese di profonde riflessioni sui reali vincoli affettivi che travalicano i legami di sangue. Come per l’autore di Ritratto di famiglia con tempesta, anche per la cineasta emergente la famiglia essenzialmente la si crea fondandone i pilastri su un legame che si sceglie di vivere e non che si eredita.
La determinazione di Inez, donna forte e coraggiosa dedita – assieme al compagno Lucky – a crescere il ragazzo offrendogli protezione, amore e istruzione, quel futuro migliore che lei non ha avuto, diventa la manifestazione di un sentimento profondo di aiuto e alleanza reciproco (“ci siamo dentro assieme” ripete al piccolo dopo la fuga) che si identifica con l’essere neri nell’America di oggi. In una società che colpevolizza e vittimizza in base al colore della pelle, ecco che la solidarietà diventa uno strumento di resistenza individuale e collettiva che, contraria a leggi ingiuste, le infrange per conquistare diritti promessi ma ancora troppo spesso negati.
Essenziale in questo senso il rapporto dei personaggi con la realtà urbana che abitano. New York è rappresentata sempre dal basso o dall’alto con un sovrastante paesaggio sonoro di voci, rumori e musica a simboleggiare il senso di oppressione, l’inadeguatezza a viverla se non si appartiene alla privilegiata etnia caucasica, come dimostrano i grandi eventi politici e sociali presentati sullo sfondo a scandire cronologicamente l’evoluzione storica della città.
L’insediamento del sindaco Giuliani con la sua politica reazionaria fino all’11 settembre e il conseguente acuirsi di un clima fortemente repressivo, le garanzie mancate del successore Bloomberg che non hanno fatto che acuire il drammatico fenomeno della gentrificazione che da anni affligge i sempre meno etnici quartieri della città, sono la cruda dimostrazione di una indiretta e sistematica persecuzione verso categorie etniche, sociali o di genere ostacolate nel raggiungimento dei propri sogni, ambizioni e conquiste personali.
“Penso che il progetto abbia raggiunto un punto di svolta quando ho iniziato a rendermi conto che le comunità di colore venivano prese di mira in modo specifico e sembrava che non stessimo solo migrando verso nuovi quartieri, ma che fossimo stati espulsi completamente dalla città”, afferma la regista individuando in questo fenomeno il motore della narrazione, urgente quanto necessaria denuncia in immagini di una condizione collettiva tendenzialmente ignorata, gridata qui a una sola voce che amplifichi quelle inascoltate di chi vive esperienze simili sulla propria pelle, di qualsiasi colore essa sia.