Dopo avere affrontato con discreto successo le due importanti produzioni hollywoodiane al fianco del celebre autore Taylor Sheridan (Soldado, 2018 e Senza rimorso, 2021) Stefano Sollima torna a dirigere un film ambientato in Italia. Si torna a Roma, la città che il regista ha sviscerato con la sua macchina da presa sin dall’esordio televisivo con Romanzo Criminale, ampliando poi il raggio d’azione dello sguardo approdando sul grande schermo con i notevoli A.C.A.B – All Cops Are Bastards (2012) e Suburra (2015).

E proprio a questi due titoli si ricollega idealmente Adagio, annunciato dallo stesso autore come il tassello finale di quella che potrebbe essere vista come la sua “trilogia criminale romana”. Ma è soprattutto la sua opera seconda a riecheggiare fra i muri del labirinto suburbano in cui Adagio si dipana presentandosi come l’adeguato controcampo del suo predecessore. L’occhio orientato principalmente agli attici del centro e alle magniloquenti ville di periferia, viene qui calato fra i drammi che affliggono gli strati sociali più bassi della malavita. Adagio è un faro puntato sulle zone d’ombra di quella stessa Capitale, una visione del medesimo cosmo ma attraverso un’ottica ribaltata, opposta.

Una contrapposizione espressa simbolicamente anche dagli elementi naturali che flagellano la città: una pioggia fitta e costante ad annegare i ripugnanti giochi di potere di Suburra e le fiamme distruttrici che lambiscono le porte della Roma distopica in Adagio. E se a muovere le figure di questa cupa e rovente scacchiera è ancora un potere politico sopraelevato, questa volta il fulcro del racconto è costituito da coloro che occupano gli ultimi posti di questa scala gerarchica. Individui disperati, costretti ad aggredire altre vittime della disperazione semplicemente per sopravvivere in una jungla di cemento disperata quanto le vite dei suoi abitanti.

Alcuni fra i volti più noti del cinema italiano recente (Favino, Servillo, Mastandrea, Giannini) vengono sporcati, imbruttiti, deformati dalla sofferenza e consumati dalla fatica. Tra loro si muove con disinvoltura l’esordiente Gianmarco Franchini, il cui Manuel, protagonista e vittima fra le vittime, fugge da una trappola che si stringe rapidamente attorno a lui, trovandosi ad implorare l’aiuto di personaggi dal passato ormai sepolto e dal futuro inesistente. Manuel corre alla ricerca della salvezza mentre il mondo intorno a lui brucia, le vite si dissolvono come cenere e il vile ricatto degenera in furia spietata.

Eppure, anche in una realtà che sembra sprofondare inesorabilmente verso gli inferi, Sollima getta i semi della speranza per la salvezza di una vita non ancora totalmente corrotta. Speranza che germoglia grazie al compimento di un percorso di redenzione; grazie al sacrificio di chi possiede la forza per valicare i confini dell’odio e della rassegnazione riscoprendo la dolce carezza dell’empatia.

Inscenato con la consueta devozione verso un rigore formale che non estetizza la criminalità, ma ne esalta gli aspetti più brutali, Adagio si afferma come un’opera spietata, uno scorcio apocalittico, crudele e doloroso (ben più greve di quello raffigurato un anno fa da Virzì nel già ben poco consolatorio Siccità) per il quale le uniche soluzioni contemplate sono il martirio o la fuga.  Ma se il mondo circostante non concede vie di scampo, la via per la pace va trovata nella riscoperta del valore della vita, anche quando non si tratta della propria. 

Anche quando tutto è perso ed irrecuperabile, un ultimo, estremo, gesto d’amore è ciò che può consentire all’umanità di trovare la salvezza.