Anche se i nostri quotidiani più importanti gli hanno dedicato al massimo una foto-notizia in angolo alto della sezione spettacoli, Miklós Jancsó ci mancherà molto. Scomparso ieri a 94 anni, il regista ungherese (da lungo tempo ormai lontano dai radar della cinefilia occidentale, ed è un peccato) aveva mantenuto l’autorevolezza del nome e il magistero di cineasta della modernità europea. Tanti siti web nel mondo lo hanno ricordato. Per un giro a 360 gradi delle testate cinefile internazionale, si può leggere qui l’articolo di David Hudson. Per un ricordo più militante, e caloroso, del regista, consigliamo invece il bellissimo pezzo di Roberto Silvestri. Noi di Cinefilia Ritrovata ripubblichiamo a seguire, invece, la recensione (scritta da Chiara Checcaglini) che dedicammo a I disperati di Sandor, 1966, riproposto giusto pochi mesi fa dal Cinema Ritrovato, nella sua doverosa versione in Cinemascope.
La rassegna Bigger Than Life sull’uso del Cinemascope nei film europei ospita anche il notevole I disperati di Sandor (Szegénylegények, 1966) di Miklós Jancsó. Nel film il confinamento e l’eliminazione sistematici dei rivoluzionari superstiti che parteciparono ai moti del 1848 per l’indipendenza di Ungheria rimanda esplicitamente alle conseguenze dell’invasione sovietica del ’56. Il susseguirsi dei pianisequenza è quasi impercettibile, ma non lascia scampo: il Cinemascope è perfetto per esaltare gli spazi e le rigorose geometrie, ma paradossalmente espande al massimo il senso di oppressione, nonostante la vastità degli spazi e l’orizzonte a perdita d’occhio ricordino certe inquadrature western. Nemmeno per un secondo le distese pianeggianti e il cielo sgombro comunicano un qualsivoglia senso di apertura o libertà, fosse anche come mero, speranzoso anelito.
L’immensità degli spazi è l’estensione del metafisico deserto dell’umanità in cui i prigionieri si trovano rinchiusi: non c’è poi troppa differenza tra le anguste celle, i cortili e l’esterno, forme diverse della stessa trappola mortale. Il bianco e nero è tagliente e impietoso, le figure umane indistinti segni neri e bianchi oppure volti segnati che attendono la morte. I carcerieri non devono sforzarsi troppo per mettere in atto una tortura psicologica (quella fisica è quasi assente, si passa direttamente all’impiccagione): basta annullare l’identità perché gli istinti di sopravvivenza mettano l’uno contro l’altro; dimostrare incessantemente che non c’è via di fuga, che si può solo girare in tondo, incatenati e col volto coperto, mentre il tempo perde di senso e lo spazio si muta nel suo contrario.
I disperati di Sandor è una lezione di cinema estremo e austero, impressionante e maestoso: quelli che si credono i protagonisti vengono spazzati via da un momento all’altro, la prevaricazione (di una parte dell’altra, e dell’immagine sul tutto) è totale, la lezione della Storia, segnata dall’ultima scena, è tragica e cruda.