È noto che i primi cinquant’anni circa di storia del cinema sono stati caratterizzati da un costante tentativo di legittimare il cinematografo a forma d’arte, per sdoganare lo spettacolo sul grande schermo dalla concezione di mero intrattenimento di massa. Sin dalle origini, adattamenti e trasposizioni prevalentemente letterarie sono state costanti produttive delle varie cinematografie nazionali; così anche in Italia dove, come insegna Gian Piero Brunetta in Gli intellettuali italiani e il cinema, il dibattito è stato più che mai vivo e acceso, data la lunga tradizione locale artistica, letteraria, teatrale e musicale.
Aida di Clemente Fracassi è un esempio calzante di tale mediazione – o rimediazione, parafrasando il neologismo di Bolter e Grusin – cinematografica, che voleva avvicinare la cultura “alta” senza rinunciare alla propria natura popolare. Le scenografie e i costumi volutamente kitsch, oltre alla scelta di Sophia Loren e Lois Maxwell nei ruoli principali di Aida e Amneris (doppiate rispettivamente dal soprano Renata Tebaldi e dal mezzo-soprano Ebe Stignani) sono scelte che evidentemente strizzano l’occhio al filone dei peplum in voga in quegli anni tra America e Italia, riuscendo comunque a rendere la complessità della lirica verdiana a un pubblico ampio e non eccessivamente acculturato. I puristi avranno da storcere il naso, perché di fatto l’Aida di Fracassi su musiche eseguite dall’Orchestra RAI non va molto al di là di una versione aulica dei musicarelli nostrani, più vicina alla tradizione del canto melodico di Claudio Villa o del primo Modugno che a quella dei moderni urlatori.
Ma è proprio qui che l’esperimento funziona, nel tentativo azzardato e un po’ folle di far convivere la popolarità delle arie verdiane con la popolanità di certo spettacolo nostrano, fatto di seducenti vedette e balletti su una trama convenzionale che non nasconde però allegorie e metafore ricollegabili alla storia italiana. Difficile infatti non scorgere nel dramma della protagonista, schiava divisa tra l’amore per il proprio Paese e quello per il guerriero invasore Radamés, il passato recente di una nazione spartita al suo interno tra grandi potenze locali ed europee negli anni pre-Unificazione (la prima dell’Aida è del 1871). E altrettanto plausibile risulta la rilettura dell’opera in chiave post-coloniale – ripresa anche da Rino Gaetano nell’omonima canzone del 1977 – che il film chiaramente fa propria. L’oppressione del popolo etiope per mano di bianchissimi egiziani o i dettagli sui volti di giovani africani tra i soldati catturati, sono alcuni tra i più evidenti rimandi alla vergognosa parentesi imperialista fascista e il tragico finale, che vede i due amanti andare incontro alla morte in nome di un sentimento in netta opposizione alla volontà dei padri, segno di una rinascita intellettuale e morale a cui il Paese anelava nel dopoguerra e nei prima anni repubblicani.
Se Verdi resta oggi uno degli autori più noti della storia della musica colta italiana, lo si deve senz’altro alle sue composizioni, ma anche a lavori come quelli di Fracassi che, rielaborando l’opera del Maestro, hanno saputo attualizzarne i contenuti sfruttando l’impalcato narrativo originale per nuovi dialoghi rivolti a nuovi spettatori.