L’intento politico di questo film è immediatamente dichiarato dalla scelta di aprire con delle frasi che scorrono a schermo riepilogando le morti di cittadini di origine algerina durante l’anno 1975. Alla prima citazione di armi da fuoco è impossibile non pensare, a luglio 2021, all’omicidio di El Boussetaoui, marocchino, per mano dell’assessore alla sicurezza del comune di Voghera di cui si parla da giorni su tutti i giornali. Poi compare l’immagine della bandiera francese che sventaglia, a cui vengono sovrapposti alcuni aberranti titoli di giornale, e in sottofondo sentiamo la marsigliese suonata da una tromba solitaria. Infine, la strada che porta all’arco di Trionfo, divisa in due sensi di marcia, uno verso di noi e uno che si allontana, immagine perfetta per dichiarare che qui si parla di opposizioni, diverse direzioni destinate a non incontrarsi mai.
Il documentario di Djouhra Abouda e Alain Bonnamy nasce da un forte desiderio di espressione personale, ma si realizza nel confronto con il mondo esterno, documentando il preciso contesto degli immigrati algerini in Francia negli anni ’70. I registi scelgono di riprendere in strada, nelle fabbriche e nei cantieri, cogliendo le immagini di centinaia di lavoratori sfruttati, e la voce narrante che ci accompagna in questo film appartiene proprio a questi immigrati, che si raccontano senza alcuna mediazione da parte degli autori. In questo modo viene dato uno spazio all’espressione demoralizzata di questi cittadini, che lamentano di doversi accontentare dei lavori più umili e sfiancanti, di non poter avere accesso alle professioni per cui sarebbero formati, di essere divisi dalle proprie famiglie e dal proprio paese natale, di vivere in baracche e in condizioni sanitarie disastrose, oltre ad essere sempre denigrati e declassati in quanto arabi.
Non so come sia evoluta questa situazione in Francia, ma sappiamo tutti invece in che condizioni versa l'Italia. E alcune immagini e affermazioni riportate nel film ci riportano immediatamente ai titoli dei nostri quotidiani e ai commenti su Facebook. Fa venire i brividi sentir raccontare da queste persone che, quando potevano comprarsi una camicia bianca per i giorni di festa, venivano additati come ricconi, quando oggi in Italia si sente spesso il ritornello “hanno gli smartphone”. E questo perché, dove c’è lo sfruttamento e la denigrazione delle minoranze, spesso le classi più potenti non guardano al loro percorso, non vedono dove vivono, non capiscono i loro sacrifici per avere ciò che per noi privilegiati è tanto facile ottenere. L’attualità dei temi risulta disarmante e credo porti lo spettatore a sentirsi ridicolo.
Il film spiega in maniera chiara, attraverso la voce degli immigrati, di contesti di discriminazione definitivi, nell’ambito lavorativo, sociale, relazionale, sessuale, che non permettono alcuno spazio al confronto o al cambiamento. È evidente che qui non si parla di paura del diverso, quanto di supremazia della razza, un ragionamento di comodo che contraddistingue il comportamento dell’uomo da sempre, e ne abbiamo già visto i devastanti effetti quando non viene tenuto sotto controllo. Un difetto impossibile da scardinare, e il film di Abouda e Bonnamy ce lo spiega bene perché non cerca di dare risposta, bensì solo di testimoniare una condizione per non lasciarla perpetrare sotto silenzio. Le immagini vengono manipolate continuamente, tra ralenti, velocizzazioni, ripetizioni e interessanti sovrapposizioni (una su tutte quella di un gruppo di operai in tuta azzurra alternati a una schiera di ragazze sorridenti intente a svestirsi da camici dello stesso colore), soluzioni che enfatizzano l’assoluta arbitrarietà di questa divisione sociale e la sua sterilità, il suo arenarsi verso uno scenario privo di futuro o progresso.