Alps, terzo lungometraggio di Yorgos Lanthimos, ritorna sugli schermi italiani distribuito da Phoenix International Film. Premio Osella per la migliore sceneggiatura al Festival di Venezia 2001, è un film che fornisce le coordinate per tracciare un nuovo paradigma societario, basato sulla sostituzione e sull’annientamento dell’umano.
Il team chiamato Alps, formato da un paramedico, un’infermiera, una ginnasta e il suo coach, si sostituisce alle persone defunte per sostenere i parenti e alleviare loro le pene derivanti dal lutto. Del tutto assimilabile a una società clandestina di mutuo soccorso, la squadra affronta le situazioni più paradossali, ma l’apice della stranezza la si tocca quando una delle quattro prende il posto di una giovane tennista moribonda dopo un incidente stradale.
Lo spazio è un circuito chiuso, il tempo non ha durata e non sono concesse verticalizzazioni, né profondità di campo. Gli ambienti in cui si muove la macchina da presa sono sale di tortura fisica e psicologica in cui i personaggi diventano silhouette senza vita al centro dell’esperimento di un sadico che si chiede cosa ci sia di autentico in questo mondo congelato. Lanthimos realizza così un claustrofobico dramma surreale carico di humour nero, ambientato in un tempo senza social in cui le interazioni tra gli esseri umani si riducono a corpi da indossare e da vivere.
Proprio la sostituzione dei corpi, fredde e intercambiabili asperità, permette al regista di sfruttare il canone del surrealismo per raccontare una società che (tra)passa attraverso le icone popolari, perché del defunto sono replicabili solo scorie nazional-popolari come il nome dell’attore preferito, dettagli trascurabili come i suoi tic e le sue abitudini quotidiane, mentre la sua anima rimane inaccessibile. La poetica della mercificazione di corpi e marchi, vista anche in Dogtooth con la comparsa di alcuni film cult anni Ottanta prosegue in Alps sfruttando un procedimento ricorsivo: alla solenne apertura con i Carmina Burana, subentrano gli Aphex Twin nel finale per soddisfare il desiderio sfrenato di pop della ginnasta. La ragazza rimane in superficie, insieme alle melodie abbaglianti, a Brad Pitt e Jude Law, a Hollywood, Prince e a tutti gli automi schizofrenici che si improvvisano “ultracorpi” per trasformare il loro cambio di pelle in ossessione condivisa.
Ciò che colpisce maggiormente nella spietata cronaca dell’assurdo imbastita dal regista è la capacità di analizzare la realtà contemporanea facendo confliggere tra loro solitudini e brama di possesso, assegnando alla morte, non più l’oblio, ma il ruolo decisivo per la proliferazione delle psico-patologie della vita quotidiana. Questo cinema geometrico e chirurgico, infatti, non si sofferma sulla rielaborazione del lutto, ma sullo sviluppo di tutte quelle nevrosi che spingono i membri dell’associazione alla bulimia del possesso “di superficie”. In questo valzer di atti meccanici e parole svuotate di senso, viene depotenziato il valore supremo dell’alterità, attraverso il discrimine che intercorre tra la finzione “simulata” dagli “ultracorpi” e la realtà, in un delirio che pian piano si cronicizza fino a eliminare ogni possibile sublimazione.