“La satira non ha padroni, quindi sta bene sotto ogni padrone”. L’emblematica frase di Nanni Moretti in Aprile torna frequentemente alla mente durante la visione di American Fiction, opera d’esordio per il grande schermo scritta, prodotta e diretta dall’autore e regista televisivo Cord Jefferson ora disponibile su Prime Video.
Un film in apparenza dissacrante, in realtà perfettamente in linea con il riscoperto spirito progressista di Hollywood che, dettato dalle nuove prospettive sociali e culturali inerenti l’annosa questione etnica americana, finisce spesso per auto-incensarsi con pellicole superficialmente innovative che invece ribadiscono ruoli e gerarchie sociali consolidati nel tempo e nella storia nazionale (come 12 anni schiavo o Green Book, solo per ricordare gli eclatanti casi più recenti).
Tratto dal romanzo di Percival Everett Cancellazione, a sua volta trasposizione romanzata dell’esperienza personale dell’autore, il film è una satira sulla scena culturale statunitense in cui lo scrittore Thelonious (come Monk, celebre pianista jazz tra i più atipici del suo tempo per stile e personalità) Ellison (come Ralph, autore del caposaldo della letteratura black Uomo invisibile) vorrebbe scrollarsi di dosso il fardello di essere considerato nero prima che romanziere.
Un po’ per gioco, un po’ per necessità decide di dare al pubblico quello che chiede: uno scritto, sotto pseudonimo, infarcito dell’immaginario stereotipato delle miserie afroamericane che l’establishment bianco reputa oggi genuina fonte di successo garantito. Droga, violenza, periferie, gang e famiglie disgregate sono il soggetto del nuovo caso librario corteggiato dai grandi editori e dall’industria cinematografica che vorrebbe accaparrarsi i diritti per un adattamento, situazione che verrà a creare al protagonista non pochi problemi di coscienza.
Viene naturale il confronto con un film che persegue simili intenti, l’ancora troppo sottovalutato Bamboozled di Spike Lee, in cui un affermato autore televisivo afroamericano realizza uno show volutamente razzista basato sulla tradizionale iconografia minstrel al fine di smascherare l’ipocrisia dell’azienda per cui lavora, finendo presto però per perdere il controllo della sua opera con disastrose conseguenze.
Ma Jefferson non è Lee, e si vede. Se nell’opera del 2000 l’intento satirico è fortemente riuscito e porta lo spettatore a ridere di sketch volgari ed eccessivi, senza mai dimenticare quel che ci sta dietro né potersi sottrarre al meccanismo narrativo del film pena la conferma della propria falsa innocenza, American Fiction viene a mancare il suo obiettivo e questo almeno per due ragioni.
La prima è che la critica del regista all’industria culturale statunitense arriva in ritardo sui tempi. Già da circa 15 anni il panorama nazionale si sta confrontando con una crescente produzione inerente la questione afroamericana, prodotti più o meno riusciti che tentano di innovare una situazione stantia anche attraverso la decostruzione degli stereotipi tradizionalmente associati ai neri, partendo dall’immaginario consolidato per offrirne nuove e più realistiche rappresentazioni.
Perché il problema non è il continuare a denunciare le misere condizioni di un certo ceto sociale, volenti o nolenti, chiaro segno di lacune nel sistema nazionale. La questione è il modo in cui tali problematiche sono raccontate, sfruttando i cliché di consueti canoni narrativi e iconografici che perpetuano un’idea di fatalismo ipocritamente assolutorio, oppure cercando altre vie che dimostrino come un’alternativa più costruttiva sia possibile. È la scelta tra rimanere nel ghetto, fisico o mentale che sia, oppure provare a uscirne cambiando, evolvendo, innovando la maniera di essere e di pensare propria e altrui.
Questo manca nel film di Jefferson e nel suo protagonista, che in pratica sceglie la strada più semplice trascinato dagli eventi e dal suo agente senza una precisa motivazione personale. Apparentemente l’unico ad avere la lucidità intellettuale necessaria per muoversi nel contesto socioculturale contemporaneo, Thelonious finisce per diventare l’ennesimo tassello di un sistema produttivo che solo ne monetizza il talento.
Proprio il finale che vede Ellison riscrivere la scena conclusiva del film tratto dal suo romanzo per renderla più hollywoodiana, è il secondo punto debole di American Fiction. L’amara sconfitta del protagonista, che persi i suoi ideali accetta la seduzione del successo, esprime un normalizzante ritorno all’ordine che stempera la corrosività della critica insita nel discorso di Jefferson.
La sconfitta e assimilazione del protagonista al sistema più commerciale è in fondo quello che vuole la stessa industria bianca dello spettacolo. Non una denuncia feroce dell’arretratezza della mentalità dominante che ancora non riesce e non vuole vedere, ma una semplice ramanzina che in definitiva lascia tutto com’è, lavando le coscienze sporche fino alla successiva stagione cinematografica, come dimostrano le cinque candidature ricevute dal film ai prossimi Oscar tra cui quelle per Miglior film, Miglior Attore e Miglior sceneggiatura non originale. Date a Hollywood quello che è di Hollywood.