In attesa dell’inizio di Gender Bender cinema, che avrà luogo il giorno 26 ottobre, Cinefilia Ritrovata si occupa di Mappletrhorpe: Look at the picture, anteprima della rassegna, documentario dedicato all’opera dell’artista-fotografo newyorkese (in uscita poi nelle sale il 24 ottobre).
Il film è composto da interviste a familiari, allo stesso Robert attraverso registrazioni audio e ai più stretti collaboratori che lo hanno accompagnato nel corso della sua (breve) permanenza in questo mondo. Avere a che fare professionalmente con Mapplethorpe era inscindibile dall’averne a che fare anche da un punto di vista umano: una delle caratteristiche peculiari e più grandiose della sua opera fu il costante e continuo incontro tra arte e vita, la sua esistenza divenne totalmente votata al raggiungimento dell’obiettivo, le sue frequentazioni avvenivano in funzione di una crescita personale, tramutando ogni rapporto umano in un bagaglio esperienziale messo al servizio della sua opera.
Il culmine di questa vita artistica fu proprio alla fine, nel momento in cui, gravemente malato di AIDS decise di utilizzare un’ultima volta il proprio corpo e ritrasse il proprio volto deturpato dalla malattia su sfondo nero brandendo un bastone che ha per pomolo un piccolo teschio a suggellare ancora una volta la concettualità della sua arte e fissandosi e influenzando per sempre l’immaginario artistico a venire (David Bowie nel suo ultimo videoclip Lazarus sembra mettere in atto un’operazione simile). Il buon lavoro di Fenton Bailey e Randy Barbato trasmette sapientemente questa fusione vita/arte, prendendo le mosse dai primordi: durante un gioco nel quale lo scopo era indovinare i sapori, il piccolo Robert riempì la bocca del fratello con il contenuto di un posacenere, nell’impertinenza di un’infanzia alla quale non interessava particolarmente la fotografia.
Si passa poi per gli studi al Pratt Institute, per l’infatuazione per le riviste pornografiche chiuse nel cellofan, proibite, inarrivabili e i primi lavori in cui utilizzava le fotografie di tali riviste per poi intervenire artisticamente sull’immagine, per l’amore con Patti Smith e la permanenza al Chelsea Hotel, all’uso di Polaroid (indispettendo Andy Warhol) e alla definitiva consacrazione.
Da queste interviste emerge la sua determinazione, la sua ossessione a lasciare un segno indelebile, a continuare a vivere anche dopo la morte, emerge un ego enorme senza il quale non avrebbe potuto compiere quel che ha compiuto, ma emerge anche e soprattutto l’ipocrisia e l’ottusità di una società perbenista e finto-moralista che ha più volte osteggiato la sua opera, anche e soprattutto dopo la morte, quando alcune sue esposizioni furono fatte chiudere dalle forze dell’ordine e venne intentato un processo per oscenità. In fondo lo stesso padre non accettò mai la sua omosessualità e considerò artistiche solamente le fotografie dei fiori.
Un bel documentario che racconta in maniera efficace un’artista dibattuto, controverso, potente, che metteva la propria corporeità al centro dell’opera, unendo influenze opposte, come l’interesse per il sadomasochismo e un’influenza religiosa proveniente probabilmente dall’infanzia, nonostante egli non fosse mai stato in alcun modo credente. Un promettente inizio per Gender Bender cinema 2016.
Stefano Careddu