Sciatta e incompetente, Andy Sachs è un pesce fuor d’acqua tra gli immacolati corridoi della prestigiosa rivista Runway. Tanto intelligente quanto poco appassionata di moda, l’aspirante giornalista interpretata da Anne Hathaway metterà in discussione i suoi pregiudizi (e le gonne della nonna) per sopravvivere almeno un anno nell’improbo ruolo di assistente di Miranda Priestly. Determinante Meryl Streep nella parte della temutissima capa, responsabile del tragicomico clima di prestigio e terrore che aleggia in redazione.
A quindici anni dall’uscita nelle sale Il Diavolo veste Prada arriva sullo schermo di Piazza Maggiore tra stivaletti di Chanel, trasferte parigine e maglioncini cerulei. Un’ottima occasione per accorgersi o ricordarsi che non si tratta di una commedia banale.
Gli incarichi folli, l’ambiente lavorativo grassofobico, la vita privata appesa a un filo (verrebbe da chiedersi se l’antagonista non sia piuttosto il fidanzato poco incoraggiante e nient’affatto entusiasta delle ambizioni della partner): le ordalie della giovane assistente sarebbero degne di un thriller psicologico, eppure si travestono di un’apparente frivolezza. È il pregio dei chick flick, termine in teoria derisorio e screditante ("film da femmine" è forse il corrispettivo italiano più accurato) che dovrebbe reclamare una ri-semantizzazione più entusiasta e accogliente: oltre a raccontare una storia di crescita, ambizione e corruttibilità, la sequenza della metamorfosi di Andy — da brutto anatroccolo a impeccabile donna in carriera — ha il primo grande pregio di essere divertente.
Stanley Tucci, nei panni del mentore cinico ma affezionato, si destreggia tra le sterminate corsie di uno showroom da sogno seminando battute destinate al più devoto citazionismo; al ritmo di Vogue Hathaway sfoggia degli outfit iconici nel traffico newyorkese in un montaggio di puro intrattenimento. Ma intanto la costumista Patricia Field costruisce una narrazione complessa e silenziosa proprio attraverso la selezione dei vestiti: basta osservare i capi strutturati e decisi associati al personaggio di Emily Blunt — vittima e prodotto dell’ambiente tossico e totalizzante in cui lavora — o l’episodio della trasferta parigina dove Andy e Miranda indosseranno due elegantissimi abiti con una scollatura quasi uguale, a suggerire il graduale approdo a una reciproca identificazione.
Insomma la moda è una cosa seria, così come le commedie. Com’è giusto, si assiste a un progressivo indebolimento della trama e a un finale un po’ vigliacco. Ad ogni modo si guadagna lo statuto di cult, com’è successo due anni prima con Mean Girls, che più di tutti condivide con Il Diavolo veste Prada il destino di raccontare con esattezza e ironia gli archetipi di un microcosmo complesso e problematico — il mondo del liceo americano come quello della moda — senza rinunciare al lusso della frivolezza.