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“Lubo” nel nome del figlio
Figli inascoltati, figli da ritrovare, figli da riconoscere, figli da redimere. Nell’affrontare la Seconda Guerra Mondiale Giorgio Diritti ci aveva già donato un’efficacissima immagine nel miracolo della parola da parte della bimba muta ne L’uomo che verrà. L’attesa per una paterna redenzione dei figli ritorna anche in Lubo e ancora una volta il regista bolognese aggira il thriller con una messa in scena rigorosa che prolunga i tempi per immergerci nella percezione del protagonista.
“La bête” nella giungla del digitale
Se Coma era una lettera d’amore alla figlia isolata nella pandemia, La bête è un melodramma che nella ritualizzazione scenica di una casa ritrova la possibilità di un’intrusione, di un incontro gratuito con l’altro. Ma lo ritrova soprattutto nell’incontro dello spettatore con il corpo di Léa Seydoux, nel patimento per il suo scontro corporeo con la rimediazione digitale, uno scontro che supera epoche per darsi ancora come seme del desiderio.
“Animali selvatici” dentro i nostri confini
La forma che Mungiu decide di adottare per raccontare le sue vicende è il thriller, che si fonda sul principio di una conoscenza solo auspicabilmente piena ma in fondo precaria, carente. La disseminazione di indizi tipica del thriller è prima di tutto una disseminazione di punti di vista. Difatti il film è alla perenne ricerca di un protagonista, di un punto di vista inascoltato. In questo modo lo spettatore può vagliare le divergenti prospettive e i conflitti di una piccola comunità chiusa della Transilvania senza dover assumere per forza una posizione determinata.
Il cinema di Elfi Mikesch, sogni al femminile
Una musica hawaiana, una donna che si lava i capelli, uno scontro tra anelito di fuga ed esperienza abitudinaria in cui s’insinua una voce femminile che con cadenza poetica verseggia d’un desiderio di reciprocità amorosa. La musica diventa una ballata, la fuga diventa d’amore, una donna si asciuga i capelli. Immagini e voci si alternano per qualche minuto, un montaggio di materiale informe che produce una sensazione d’insoddisfazione, rafforzando il desiderio di qualcosa di compiuto. Le donne che popolano il cinema di Elfi Mikesch sono delle sognatrici che vivono una realtà precaria.
Mamoulian e il musical hollywoodiano
A suffragare l’idea, prevalente nella critica su Rouben Mamoulian, del declino del suo cinema si è spesso preso come esempio l’ultimo dei suoi musical, La bella di Mosca (1957), confrontandolo con il celebre primo, Amami stanotte (1932). La vitalità dei virtuosismi registici che hanno contraddistinto l’autore sembra scomparsa nell’immobile frontalità di un’opera tutta incentrata su coreografie e scenografie. Eppure i due film nel loro comune atteggiamento autoriflessivo rispetto all’apparato linguistico hollywoodiano evidenziano piuttosto l’ascesa e il declino di un genere e di un’intera industria.
Rouben Mamoulian e il corpo di Tyrone Power
A inizi anni Quaranta un paio di nuove produzioni con la Fox riportano al successo commerciale Rouben Mamoulian: Il marchio di Zorro e Sangue e arena rivelano un altro volto di Mamoulian. La sua trasformazione da scienziato ad avventuriero si compie grazie all’uso del corpo plastico e leggiadro di Tyrone Power. Un nuovo tipo di figura maschile appare: sempre doppio, ma più elegante seduttore che pazzo arrapato, non uomo d’intelletto ma d’azione, un tragico ballerino che spadeggia e torera contro il destino per vendicare il proprio padre sconfitto.
Le dive di Rouben Mamoulian
Fin dai suoi primi film Mamoulian ha messo al centro della narrazione la figura femminile. In alcuni film è il punto di vista maschile a definire la posizione della donna. Altre volte però è la soggettività femminile a domandare una propria autonomia e il riconoscimento di uno spettro emotivo più ampio. Non più quindi donne angelo che devono ispirare ed elevare uomini scissi tra materia e spirito, piuttosto donne con una loro agency e forza combattiva che cercano una realizzazione anche attraverso la sfera sessuale.
Jekyll, Hyde e il cinema fluido di Rouben Mamoulian
Mamoulian, inventore pazzo della prima Hollywood sonora, crede che il cinema sia ben più complesso di quanto gli studios hanno fatto credere con la loro standardizzazione dei nuovi apparecchi per il cinema sonoro. E che lo spettatore sia un’entità più mutevole del pubblico da teatro filmato che molti talkies immaginano. Per questo fin dalla prima scena lo spettatore assume direttamente lo sguardo in soggettiva del protagonista multiplo. Nell’affermazione di Jekyll che l’uomo sia doppio si può rilanciare certamente un parallelo con Mamoulian, che crede che incarnati nei suoi personaggi ci siano tanto l’attore quanto lo spettatore.
“Applause” e il melodramma della modernità
Il debutto al cinema di Rouben Mamoulian è un prodigioso melodramma sulla modernità e le sue nuove macchine, tra cui appunto il cinema. Nonostante la formazione teatrale, il regista sembra approcciarsi al cinema perfettamente consapevole di quel che è stata la sua evoluzione linguistica nel contesto americano: integrazione del momento attrazionale nel quadro simbolico della narrazione e delle sue necessità di progressione, l’inscrizione di uno sguardo attraverso l’identificazione con il protagonista, la dialettica tra personaggio e ambiente. Proprio a partire da questa postura vidoriana, Mamoulian infrange il realismo della continuità narrativa con ferventi intuizioni avanguardistiche.
“Rapito” speciale II – Il velo del dogma
L’intera filmografia di Bellocchio è una processione di veli che frappongono l’uomo a una libertà originaria. Ma in ogni suo film riesce a scoprire in maniera nuova le sue figure tipiche, a rimodellare le forme del genere melodrammatico, a rendere sempre più ambiguo il dualismo tra vita e apparenza. Dall’intensificazione spudorata di elementi realistici del melodramma erompono gli incubi reconditi, le pulsioni inconsce, i desideri di autonomia dei soggetti.
“Pacifiction” speciale II – Il piacere dell’infondato
A differenza di La morte di Luigi XIV (2016) qui Serra lavora molto di più con l’identificazione spettatoriale con la star, legando il corpo attoriale a un labirinto narrativo in cui districarsi, trovare uno scopo. Anche il piacere spettatoriale si rivela infondato o, meglio, si rivela proprio come piacere dell’infondato, gioco con le proprie paure, ricerca di rassicurazioni dalle proprie paranoie in immagini che però non chiedono niente allo spettatore. La paranoia infatti si dà solo come atmosfera e non come evento narrativo. Quel che ne risulta è piuttosto un thriller metafisico à la Antonioni in cui è proprio l’incertezza ontologica ciò che genera piacere.
“Lo spirito dell’alveare” e l’infanzia della cinefilia
Attraverso un trauma storico (la guerra civile spagnola) Erice mette in scena un trauma percettivo prodotto dalla nascita del cinematografo. A partire dal fascismo franchista viene messo sotto accusa l’eterno fascismo dell’esperienza adulta. Quel mondo adulto che preferisce spiegare piuttosto che vivere le proprie esperienze, che non prova più meraviglia per l’avvento di un treno. Lo sguardo cinefilo allora rimane l’ultimo baluardo in età adulta di una disposizione infantile all’esperienza.
“Gli ultimi giorni dell’umanità” e la poesia della teoria
Il montaggio di Alessandro Gagliardo gioca con la durata e trasforma la “poesia della teoria” di Ghezzi in pratica filmica creando relazioni sorprendenti e generando il senso a partire da un vuoto prodotto dallo scontro di materiali difformi, come nel cinema di Chris Marker o nella produzione video di Jean-Luc Godard. Rispetto a una scomparsa della realtà, l’etica ghezziana cerca ancora di “cogliere la realtà nei brandelli” attendendo fiducioso un nuovo incrocio di sguardi, una nuova relazione con le immagine, una nuova umanità. Di fronte al terrore della fine, ci chiede un ultimo sforzo per trattenere un brandello di realtà, di umanità, di desiderio.
“Le mura di Bergamo” oltre la generazione scomparsa
“Wittgenstein” e l’immaginazione queer di Derek Jarman
Sviluppato a partire da un soggetto del filosofo e critico letterario inglese Terry Eagleton, il film è prodotto in un periodo in cui Jarman deve affrontare le drammatiche conseguenze dell’AIDS. Se il successivo Blue e il libro Chroma utilizzano il Wittgenstein delle Osservazioni sui colori per pensare la questione della percezione in seguito alla sopraggiunta cecità, il film su Wittgenstein riprende la raccolta Della certezza incentrato sul problema della conoscenza.
“Gigi la legge” I. Da posizione eccentrica
Dopo Apichatpong (L’estate di Giacomo) e Bresson (I tempi felici verranno presto), Comodin sembra qui guardare a un altro “antropologo”, il Bruno Dumont di L’umanità e P’Tit Quinquin. Eppure lo sguardo “spostato” del suo poliziotto di provincia esprime una vitalità inedita, la sua ironia è più solare che provocatoria e non si giunge mai alla soluzione tragica. Piuttosto il suo Gigi si fa simbolo di un mondo totalmente “spostato”, che però lo spettatore non è abituato a riconoscere nella sua innocente singolarità.
“Godland” tra produzione e distruzione
Pálmason fonda la narrazione su un motivo finzionale: sette fotografie ritrovate dell’Islanda di metà Ottocento. La missione di Lucas è anche quella di immortalare il paesaggio naturale e umano dell’isola, al tempo sotto protettorato danese. Ma l’attrezzatura si rivela un peso, il paesaggio troppo inospitale non solo da attraversare ma anche da essere immobilizzato dalla fotografia. Le lunghe esposizioni necessarie ai tempi per catturare le immagini impongono ai soggetti ritratti di rimanere fermi.
“EO” speciale I – Il mistero dell’animalità
La soggettiva, piuttosto che rimandare in maniera univoca a un oggettivo sognare dell’asino, fa trasparire il desiderio spettatoriale di connessione con i sogni dell’asinello, il comune destino degli esseri viventi. Il montaggio rende quindi possibile trattenere un velo di mistero sul mondo dell’asino e allo stesso tempo rende impossibile una totale padronanza dell’umano di tale mondo. Attraverso il mistero dello sguardo di Eo siamo ricondotti al mistero dell’alterità, di ogni sguardo altro che chiede riconoscimento e dignità. E alla profonda ingiustizia che subisce ogni animale, umano o asino che sia, trattato come puro significante senza diritto di voce o di verso.
“Tori e Lokita” di rigore bressoniano
Dopo quaranta anni di carriera e due Palme d’oro, i Dardenne continuano a proporre il proprio “cinema senza stile” consapevoli della necessità di far esistere questi corpi marginalizzati e disconosciuti. Si possono notare negli anni differenze come il sempre maggior impegno nella scrittura che ha messo in secondo piano il lavoro d’improvvisazione e sperimentazione sul set. L’inquadratura in semisoggettiva non è più nervosa come un tempo, eppure rimane costante il rigore dello sguardo.
“Infinito: l’Universo di Luigi Ghirri” e l’enigma del paesaggio
Infinito fu un progetto fotografico di Luigi Ghirri del 1974. Il lavoro consisteva in 365 fotografie di cieli diurni, una per ogni giorno dell’anno. Cosa spingeva un artista a fissare il cielo tutti i giorni per un anno? Non certo follia, piuttosto alcuni pensieri, sull’arte, la fotografia, la vita, la società contemporanea. Parte da questi pensieri, Matteo Parisini per riscoprire la figura del fotografo emiliano. Prodotto in collaborazione con Sky Arte HD e Rai Cultura, Infinito: l’Universo di Luigi Ghirri fa rivivere, attraverso la voce di Stefano Accorsi, la parola dell’autore cercando di evidenziare il legame tra opera e pensiero.