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“Ritorno a Seoul” e la vita così com’è

Inserito nella rosa dei migliori quindici film internazionali, ma non presente nella cinquina finale agli ultimi Premi Oscar, Ritorno a Seoul, secondo lungometraggio del cambogiano Davy Chou ispirato alla reale esperienza dell’amica Laure Badufle, è la storia di Freddie. Del suo viaggio in Corea del Sud, intrapreso nel tentativo di trovare i genitori biologici. Della ribellione inflessibile alle abitudini mai condivise coltivate dal popolo che non l’ha voluta. Del rifiuto della sofferenza e di un padre contemplato di rado, in un passato brulicante di demoni non sopiti.

“Il mondo sul filo” 50 anni fa

Il mondo sul filo, tratto dal romanzo Simulacron 3 di Daniel F. Galouye e girato in quarantaquattro giorni, durante una pausa nella produzione di Effi Briest, rappresenta l’unico film di fantascienza di Fassbinder: prigioniero nella vita reale di una parabola simile alla sorte del suo Vollmer, intellettuale prolifico e sensibile, anche qui capace di far emergere il suo cinema, riuscendo ad andare ben oltre la semplice distopia.

“Leila e i suoi fratelli” dentro il teatro di guerra domestico

Da una parte simile ad altre eroine struggenti, quali Neeta e Keiko, protagoniste rispettivamente di La stella nascosta (Ritwik Ghatak, 1960) e Quando una donna sale le scale (Mikio Naruse, 1960), Leila, interpretata non per nulla da Taraneh Alidoosti. Leila, consapevole ciononostante delle fratture interne alla famiglia e spettatrice tutt’altro che distaccata dei denti di una morsa che stringe da ogni lato. Dall’altra Esmail, coltivatore di un sogno irrealizzabile e di una speranza dai giorni infiniti, con gli ornamenti e i tessuti dell’attesa. Il teatro di guerra, un’umile casa che scotta di febbre, sdraiata anch’essa in un torpido dormiveglia.

“Empire of Light” e l’arte di contenere l’angoscia

Accantonata la prospettiva di manifestarsi sotto forma di dichiarazione d’amore, qui il cinema assume le sembianze di una fune sopra l’abisso. Un’arte in grado di contenere le angosce dello spirito, alternando l’eccitazione vertiginosa generata dalle sue storie immortali al candido conforto di una carezza. Nonostante non sia immune dall’imperfezione, scorre in Empire of Light la tenera sincerità di chi si prodighi a rinnovare una fiducia profonda, disinteressata a chi si senta perduto.

“Great Freedom” per il diritto senza retorica

Great Freedom è contemporaneamente il ritratto di un uomo inconsapevolmente iniziatore di una resistenza silenziosa e una tenera esplorazione della sessualità maschile nella Germania postbellica. Alternandosi tra punti di vista differenti – un po’ voyeur, un po’ sociologo – e stacchi temporali, Meise e lo sceneggiatore Thomas Reider non perdono mai il controllo, bandendo la retorica e dosando accuratamente l’uso della parola diritto senza risultar predicibili.

“Anche io” tassello nel puzzle del dibattito

Anche io non entrerà, magari, nella storia del cinema. Certo, nei prossimi mesi, non vincerà premi – sul punto, è attesa l’uscita di Women Talking di Sarah Polley. Non mancherà chi lo riterrà un prodotto appositamente realizzato per permettere a Hollywood di ripulirsi la coscienza. Ciononostante, rappresenta un tassello nel puzzle, calibrato sobriamente, soprattutto, accessibile a chiunque si ritenga non toccato/a dalla serietà del tema dibattuto.

“Close” tra empatia e opacità

Nonostante l’assenza di un vero discorso sull’elaborazione del lutto, sulle aspettative di una società intimamente intollerante, il regista fiammingo mantiene una notevole sensibilità nello scegliere i suoi interpreti. Pur rivelandosi un opaco affresco dell’adolescenza, per quanto ben confezionato, le lacrime a fior di pelle di Léo, durante un assolo di oboe eseguito dal fedele Rémi, restano un dettaglio di assoluta finezza.

“El Planeta” dentro le mura della casa

Si tratta dell’esordio al cinema dell’artista e influencer Amalia Ulman El Planeta. Nonostante l’incipit prenda le mosse, curiosamente, dal cortometraggio, candidato al Premio Oscar, 7:35 de la mañana, il film è caratterizzato da una struttura episodica fin troppo invadente, peraltro evidenziata da una tipologia di transizione che, considerandone l’elementarità, rischia di pregiudicarne i pregi, a discapito della tangibile naturalezza con cui le due protagoniste (Ale e Amalia Ulman, madre e figlia anche nella realtà) affrontano un intrico di difficoltà quotidiane via via sempre più angoscianti e ineludibili.

“Il momento della verità” tra uomini e bestie

Dell’eredità di Francesco Rosi, audace autore del quale ricorre il centenario della nascita, si è già ampiamente dibattuto in altre sedi. Qui, vorremmo ricordarlo attraverso uno dei suoi film meno conosciuti. Imperfetto, certamente, non esente da una velata tendenza al calligrafismo, a detta di diversi critici dell’epoca, in determinati passaggi, eppure incredibilmente moderno, Il momento della verità, una storia in bilico tra finzione e documentario, interessata in primis all’ascesa, in secondo luogo alla successiva declassazione di un torero da istituzione, stupisce per una capacità di raccontare la realtà con precisione cronachistica.