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“Fascista” di Nico Naldini e la (de)costruzione del monumento per immagini

Il progetto di Naldini, parecchio contestato al tempo della sua uscita, ripercorre rigorosamente la costruzione di quello che ancora oggi resta un vero e proprio monumento per immagini. Perché questo fu il cinegiornale: un monumento cinematografico del quale Mussolini restò il vero regista, coi piedi ben piantati al centro della miseenscène, e la folla il protagonista inconsapevole che ne incorniciò la figura e legittimò il suo ruolo di padrone. Fascista di Nico Naldini resta un lavoro inestimabile, da riscoprire e diffondere il più possibile, per offrire una consapevolezza nuova e senza scorciatoie di sorta. Nella speranza indomabile — e un po’ ingenua — di smascherare le manipolazioni di domani.

“I raggi Z” al Cinema Ritrovato 2021

I raggi Z è un titolo molto evocativo che porta alla mente eventuali risvolti fantascientifici ed improbabili pensieri legati a b-movie o anime giapponesi e robot indistruttibili. Ma la storia è totalmente diversa da quanto potremmo aspettarci anche se comunque piuttosto sorprendente. Il finale è purtroppo mutilo e quindi ignoriamo cosa siano i raggi z del titolo (forse qualcosa collegato a una macchina fotografica che stava per essere messa in azione poco prima dell’interruzione?) e come si sarebbe risolta la situazione intricata tra i vari personaggi. Sappiamo però, da una sinossi d’epoca, che Gigetta avrebbe poi sposato uno dei dipendenti di Bruniquel liberandolo così dall’incubo di venir scoperto.

Bologna, 120 anni fa

Dando un occhio ai programmi è davvero affascinante scoprire cosa vedessero gli spettatori di questo primordiale cinema bolognese, così come scoprire il prezzo di una proiezione (30 centesimi di lire) e sapere anche il nome del pianista che li avrebbe accompagnati, il Maestro Giulio Pennini. Questi ritrovamenti meritavano una celebrazione speciale, così, trovato il programma, si è pensato di recuperare anche un proiettore d’epoca per calare ancora di più l’occasione in un contesto d’epoca. Ebbene cosa vedevano a Bologna 120 anni fa? La serata non prevedeva fiction ma riprese dal vero, principalmente delle marce o scene di massa. Ma nell’incanto del vedere in azione un proiettore a manovella bisogna dire che il contenuto era decisamente accessorio all’esperienza stessa.

L’ABC del noir. “Situazione pericolosa” al Cinema Ritrovato 2021

Situazione pericolosa spicca per la consapevolezza con cui utilizza alcuni elementi stilistici e meccanismi che diventeranno ricorrenti all’interno del genere: un incipit a omicidio già avvenuto e la conseguente struttura temporale a ritroso, che si sposta tra il presente e il passato per fare luce su una verità con molte facce; l’indagine, forse non particolarmente approfondita ma evidente, delle pulsioni e delle motivazioni psicologiche dietro la rete di relazioni squilibrate che si sviluppano attorno al “corpo in assenza” della vittima; un uso intelligente delle location urbane e notturne, dal night club, al cinema osé, passando per il diner. Il tutto immerso in un notevole apparato visuale, fatto di inquadrature oblique, di angolazioni espressive, e di una fotografia molto contrastata ed efficace (di Edward Cronjager, esaltata nel restauro in 4K curato da The Walt Disney Studios), che illumina e adombra oggetti e persone, guidando lo sguardo ed evidenziando i rapporti di potere e gli sbilanciamenti morali tra i personaggi.

“Miss Lulu Bett” al Cinema Ritrovato 2021

Il tutto viene diretto da William C. deMille, fratello maggiore del ben più famoso Cecil, formatosi come drammaturgo e salito alla ribalta di Hollywood nel 1914 con The Only Son. Completamente diverso (e forse per questo oscurato) dal fratello che predilige la scrittura di film sontuosi e spettacolari, deMille Sr. scrive film che possono trasmettere al pubblico determinati valori morali. In Miss Lulu Bett, deMille viene affiancato da Clara Beranger, scrittrice e sceneggiatrice con cui stringe un sodalizio professionale e di vita, e dirige per la quarta volta Lois Wilson, a cavallo di un periodo fondamentale per i movimenti del suffragio femminile, particolarmente attivi nel corso dei primi anni Venti, nel ruolo di una pioniera della ribellione femminile verso obblighi sociali ingiusti e tossici.

Lotta di classe, lotta di generazione. Il cinema di Yuzo Kawashima

Da una parte la lotta di classe che, alla fine dei conti, è lotta “nella classe”, mentre dall’altra una “lotta di generazione”. Se Elegant Beast era una più estesa critica alla società postbellica giapponese tramite la quale il regista guardava con ironia le nuove famiglie piegate da modernità e materialismo, dall’altra invece Temple of the Wild Geese è un grido di sconforto nei confronti dei sistemi di potere tra generazioni, delle ordinazioni buddiste (da lui stesso frequentate e abbandonate per protesta contro quella che lui riteneva la corruzione del monaco capo), di un Giappone che nasconde le proprie incoerenze dietro la maschera della tradizione, che sia essa la pittura del “tempio delle oche selvatiche” (come recita il titolo internazionale, riferimento a un elemento simbolici centrale per il film), la formazione politico/militare o la dimensione religiosa.

“The Girl” al Cinema Ritrovato 2021

Questo film si inserisce con successo in una riflessione più ampia portata avanti dai registi dell’Est Europa in quegli anni, in cui all’aumentata libertà delle donne aumenta anche la loro malinconia, un movimento depresso e laconico, dovuto spesso e volentieri proprio alla perdita di ogni certezza e alla difficoltà a trovare se stesse e accettare il giudizio altrui. Mészáros ci racconta questa tensione con un film all’apparenza innocuo, semplice, in cui una ragazza vaga per il mondo, intessendo piccole relazioni e cambiando prospettiva di continuo, accompagnata però sempre dalla stessa arguzia incorniciata dal taglio maschile dei capelli corvini. Per questo quando ci si chiede chi sia davvero Kati è difficile rispondere. È una filatrice, un’orfana, una donna a cui piace ballare o semplicemente una ragazza di Budapest? Per tutto il film sono gli altri a fornirci delle risposte, ma lei mai. E il suo film non può considerarsi concluso.

“La famiglia Passaguai” di Aldo Fabrizi, tra leggiadria e slapstick

Fabrizi in veste di regista, attore, sceneggiatore, inventore di gag sulla scia del recente Domenica d’Agosto di Emmer (1950) porta avanti quasi una forma di “ trasferimento dell’esperienza neorealistica nella commedia di costume”, qui siamo anche oltre al costume, siamo alla commedia balneare, dove le battute definiscono un melone rosso “come Di Vittorio” e la bruttezza di Pecorino/Carlo Dalle Piane, poteva essere esibita per riderci su, senza sconfinare nel body shaming (“C’è qualcuno che può credere che questo sia mio figlio?…si sarà trattato più di una voglia, voglia di giardino zoologico”), o si può canzonare i protagonisti per il loro peso non proprio forma (“Lo iodio fa pure dimagrire…. sa quanti anni sono che non vado a mare? Eh 20 anni almeno e si vede!”).

“Follie d’inverno” e la danza sui problemi collettivi

il musical funziona proprio per questo, un sogno ad occhi aperti dove tutto finisce per il meglio con una risata e danzando sui problemi singolari o collettivi, come suggerisce la scenografia di John Harkrider per il locale Silver Sandal la cui pista da ballo riproduce una veduta aerea stilizzata della Grande mela. Proprio il ballo, come sempre in questo genere, diventa strumento essenziale per orientarsi nei vari triangoli amorosi che compongono la trama. “Ciascun numero di danza fa avvicinare e poi allontanare i due innamorati/ ballerini, in una deliziosa commistione di slancio e prudenza” (Ehsan Khoshbakht).

“Il processo” alla finzione cinematografica di Orson Welles

La società de Le Procès è una distopia che ricorda la metafora weberiana della “gabbia d’acciaio” in cui la razionalizzazione ha messo sotto scacco le differenze e le individualità. Significative a questo proposito sono le sequenze girate sul posto di lavoro di K, con tutte le postazioni di lavoro disposte in infinite file sempre uguali, e la sensazione che la macchina da presa sia un panopticon che segue le vite degli altri. Non c’è nulla di rassicurante in uno stato che spia i propri cittadini e formula accuse senza specificarne il contenuto: questa idea di stato si contrappone all’evocazione, quasi nostalgica, nei primi film che fecero di Schneider la star di un impero paternalista e benevolo nei confronti dei cittadini che sanno stare al proprio posto.

“Un posto al sole” e la promessa dell’immortalità

Dopo 19 mesi di montaggio e sette preview, George Stevens presentò finalmente il suo capolavoro A Place in The Sun nel 1951 e fece incetta di ben sei statuette ai premi Oscar. Ma se è vero che i premi sono figli del loro tempo ed è solo la prova della Storia ciò che realmente conta, si può certamente dire che A Place in The Sun è riuscito dopo esattamente settant’anni a rimanere un film indimenticabile. E probabilmente lo sarà ancora a lungo. L’eternità George Stevens se l’è guadagnata in tanti modi, ma in questa storia di proletari che aspirano alla società alto-borghese, fallendo, e di alto-borghesi che provano a scendere dal piedistallo ma che rimangono alieni e inarrivabili, Stevens è riuscito a infondere in una una tragedia tetra e straziante una delicatezza e un’umanità irripetibile.

Otto Preminger e la messa in scena di Romy. “Il cardinale” al Cinema Ritrovato 2021

Il Cardinale (1963) appartiene alla seconda fase della carriera hollywoodiana di Otto Preminger, in cui il regista coltiva la sua reputazione di auteur grazie commenti dei critici dei Cahiers. Per Jacques Rivette, il cinema di Preminger è l’esemplificazione stessa della mise-en-scène: “la creazione di un complesso preciso di personaggi e di ambienti, di un fascio di rapporti, di un’architettura di relazioni, mobile e come sospesa nello spazio”.  Il saggio di Rivette, “L’essentiel”, viene pubblicato dieci anni prima de Il Cardinale, ma quella “architettura di relazioni” rimane un elemento distintivo del cinema di Preminger. Nel caso de Il Cardinale, questa architettura si spinge oltre la narrazione sullo schermo.

“Bhuvan Shome” e “Uski Roti” al Cinema Ritrovato 2021

Abbandonare strade battute comporta sempre un certo rischio, ma non sono mancati autori volenterosi di accollarsi il peso della sfida. Un caso meno studiato in occidente è quello del Parallel Cinema indiano, dichiarazione d’intenti prima ancora che movimento artistico, di cui sia Bhuvan Shome che Uski Roti fanno parte. L’idea di partenza è semplice (sulla carta): trovare un nuovo linguaggio espressivo per raccontare nuove storie, per una nuova nazione. In particolare, quello compiuto dal regista, Mani Kaul, è un sabotaggio discreto alle norme vigenti del linguaggio cinematografico, ma alla fine vinse la scommessa e il suo lungometraggio d’esordio si aggiudicò prestigiosi riconoscimenti in patria.

“Dramma della gelosia” e tutti i particolari della commedia

Siamo appena agli inizi della carriera di Ettore Scola (Se permette parliamo di donne, il suo esordio, è uscito solo sei anni prima, nel 1964), ma già alcuni elementi che saranno ricorrenti nella sua filmografia successiva, acquistano qui una valenza che difficilmente riesce ad essere raggiunta successivamente. Il ménage à trois, per esempio, quello che poi sembra venire accennato anche in altri futuri film come C’eravamo tanto amati o Splendor, è con buona probabilità il più intenso e sfacciato della sua filmografia, tanto da venire definito ne Il Mereghetti come una “risposta proletaria al truffautiano Jules et Jim”; anche Roma è probabilmente una delle più disordinate della sua carriera, “la città più sporca d’Europa” dice il personaggio di Mastroianni, quasi più di Brutti, sporchi e cattivi. 

“Séraphin ou les Jambes Nues” al Cinema Ritrovato 2021

Prodotto da Gaumont e lungo 34 minuti, Séraphin ou les Jambes Nues è il più rocambolesco, pazzo ed esagitato “episodio” della serie che mette buon umore. Biscot/Séraphin è l’impeccabile e compìto direttore di una compagnia di assicurazioni che, poco prima di iniziare una giornata di lavoro qualunque e dopo aver congedato la consorte (Lise Jaux) un po’dura d’orecchi, si ritrova accidentalmente senza pantaloni. Pur di riottenere il prezioso e necessario capo d’abbigliamento, Séraphin si imbatte in continui giochi di equivoci, scambi di persona e gag slapstick del tutto conformi a un certo tipo di cinema comico più commerciale (non a caso Biscot viene scoperto anni prima da Jacques Feyder mentre esegue sul palco una perfetta imitazione di Chaplin), senza però tralasciare quell’aspetto “teatrale”, da vaudeville, che ben si bilancia tra il malizioso e il leggero.

Storia dei primi archivisti. La collezione Tomijiro Komiya

Così, se a Komiya va il merito di essere uno dei primi archivisti privati della storia del cinema, è anche vero che qualcuno, decenni dopo, ha dovuto compiere un’ulteriore impresa di salvataggio di tutte quelle pellicole che, presto o tardi, si sarebbero trasformate in polvere. Ce lo insegna N. 9654, la raccolta di frammenti più significativa, curata e montata da Hiroshi Komatsu (National Film Archive of Japan) che nel 1988 apre la “scatola delle meraviglie” donatagli dal figlio di Komiya, Takashi. All’interno trova, per la maggior parte, copie lacunose di film, molte (troppe) irrecuperabili e ridotte in grave stato di decomposizione. Komatsu cerca di salvare il salvabile e taglia e cuce decine di frammenti, unendoli in quello che è diventato una specie di album di famiglia mondiale della durata di 21 minuti. Vediamo e riconosciamo volti familiari come quelli di Pina Menichelli, Diana Karenne, Gigetta Morano ed Eleuterio Rodolfi, gustiamo un repertorio di brevi scene di genere storico, onirico, idilliaco, sacro e sociale, avvicinandoci verso il finale celebrato da una rapidissima e luminosissima catena di fuochi d’artificio formata da intertitoli e didascalie.

“Araya” al Cinema Ritrovato 2021

Araya (1959) è un documentario talmente intimo che sembra girato dagli stessi abitanti della penisola venezuelana dove questa storia si ambienta. Parlare di storia non è fuori luogo, poiché, nonostante l’intento antropologico, questo film prende le forme di un racconto umano e personale, identificando i suoi protagonisti con nomi, famiglie, storie e relazioni che, anche quando sono appena accennate, danno tridimensionalità e autenticità a questo mondo che ci sembra così lontano. Il film di Margot Benacerraf riesce con successo a coniugare diversi intenti, il documentario antropologico, la narrazione e la riflessione politica, donandoci un esempio raro di poesia misto a economia, ad efficacia del racconto. 

Un truffatore dolente. “Man of the World” di Richard Wallace e Edward Goodman

La sezione dedicata a Herman Mankiewicz è stata, nelle parole del direttore Gian Luca Farinelli, la più complicata da mettere insieme, nonché l’ultima ad essere completata per questa edizione 2021 del Cinema Ritrovato. Come ha ricordato il curatore Philippe Garnier, è praticamente impossibile fissare in una manciata di film la carriera del poliedrico sceneggiatore, che disprezzava il suo ruolo ed era anche e soprattutto “story editor”, cioè impegnato a correggere, ritoccare, rimontare insieme gli scritti di altri. Difficile dunque rintracciare con precisione l’entità del suo apporto ai tantissimi film con cui ha collaborato, con alcune eccezioni: la pellicola che ha aperto la rassegna, Man of the World, è senza dubbio una sceneggiatura firmata da Mankiewicz.

“Perdonami se ho peccato” e l’ironia dentro il mélo

George Stevens ci immerge in un mondo emotivo di tensioni irrisolte, dove l’alcol è sia l’antagonista che il protagonista assoluto, un nettare che fa da aggregatore sociale e che scorre a fiumi davanti agli occhi di Miller e Jenny, che devono resistere alla tentazione. Siamo al limite della geografia dell’anima del noir classico, in spazi che se non sono allucinati sono comunque piena espressione estetizzata di un sentimento: tra ascensori “ingabbiati”, scale e l’angusta sala museale in cui osservare sarcofagi egizi, i protagonisti si muovono secondo un raggio d’azione limitato, hanno una smania vitale incredibile ma l’impossibilità di respirare davvero l’aria fresca della libertà.

“Die Ratten” di Hanns Kobe al Cinema Ritrovato 2021

Siamo nel 1921 e in una Germania cinematografica sempre più indirizzata verso l’espressionismo qui troviamo un film ancorato al passato ma che parrebbe essere un anello di congiunzione tra il naturalismo e la successiva nuova oggettività cinematografica. Le tinte sono fosche e l’intento è quello di catturare la realtà come realmente è, ovvero brutale e spietata, ma allo stesso tempo amplificando le storture con l’uso di un trucco molto marcato. Quest’ultimo, si concentra sul creare un contrasto molto marcato tra bianchi e neri nei volti di taluni personaggi.