Archivio
“Boia, maschere e segreti” a Venezia 2019
Formalmente blando nel definire una dialettica tra il materiale di repertorio e l’attento racconto delle personalità coinvolte, questo documentario brilla per la sua capacità di estendere ben oltre i limiti dello schermo la propria passione nei confronti della materia trattata. Inglobando il punto di vista di autori quali Dario Argento e Pupi Avati, Boia, maschere e segreti fornisce una prova concreta di come l’esplosione dell’horror nostrano abbia generato un’onda d’urto in grado di scuotere ed influenzare anche i decenni successivi. In modo analogo, lo sguardo esterno ma non meno caloroso di critici e teorici francesi (tra cui spiccano Frédéric Bonnaud e Bertrand Tavernier), contribuisce ad ampliarne la portata, estendendone il raggio d’azione al di là dei confini nazionali e contribuendo ad inquadrare gli anni Sessanta come un fastoso periodo dalle sterminate possibilità per il cinema italiano.
“About Endlessness” e la finestra sulla vita quotidiana
Ben lungi dalla voler elargire un retorico discorso sul senso dell’esistenza, About Endlessness accentua la riflessione sul mistero dell’infinito e sulla fragilità del vivere. Nell’incapacità da parte dell’essere umano di elaborare una risposta adeguata, la soluzione di Andersson è ancora quella di soffermarsi ad apprezzare il valore dell’esserci. Anche in un mondo in cui i colori vengono appiattiti fino a confondersi tra loro e scomparire, dove il peso delle croci portate nei calvari quotidiani tormenta gli individui perseguitandoli anche nel sonno, o in cui addirittura un dittatore che ha sfiorato con le proprie mani il potere assoluto si rende conto di essere una presenza insignificante, l’unica possibilità per un sopravvivenza dignitosa è rendersi conto della meraviglia di esistere.
“New York New York” a Venezia Classici 2019
Nell’anno successivo all’ormai leggendario Taxi Driver (1976) – opera seminale che intercettava il clima tumultuoso della New York degli anni Settanta restituendone un affresco sordido ed ombroso – Martin Scorsese porta nuovamente in scena la sua città natale, neutralizzandone la violenza espressa dal lungometraggio precedente e adibendola a romantico sfondo di una tormentata storia d’amore. Nella tempesta di forze revisioniste che nello stesso decennio animavano la rivoluzione della “New Hollywood”, anche il musical, genere d’evasione per eccellenza, non poteva rimanere esente dalle influenze propagate dagli innovatori del cinema americano. Quella di Scorsese, quindi, non può essere una patinata parabola volta al lieto fine, alla restaurazione di uno status quo confortante minacciato da forze ostili. Anche il musical viene problematizzato, gli archetipi classici subiscono uno scardinamento e la certezza del trionfo da parte dei buoni sentimenti viene minata dalla cinica incursione di una brutale realtà.
“Fellini fine mai” di Eugenio Cappuccio a Venezia Classici 2019
Nonostante l’impeto dell’onirismo autobiografico che la contraddistingue, quella di Fellini resta ancora oggi una figura ammantata dal mistero; un autore dalla poetica tanto cristallina nella definizione del suo immaginario di riferimento, quanto imperscrutabile nel proprio processo di elaborazione e creazione artistica. Un contrasto che accentua il fascino del regista riminese, consentendogli di rimanere un soggetto ricco di zone d’ombra meritevoli di essere indagate. L’opera di Eugenio Cappuccio tenta di inserirsi nel coro di voci che definiscono e compongono il mosaico felliniano, sfruttando un punto di vista intimo e personale. Indagando la travagliata gestazione dei progetti troncati e mai trasposti su schermo come Viaggio a Tulum e Mastorna, il documentario concede la possibilità di sondare l’aspetto più scaramantico e irrazionale dell’autore, ammantandolo del sopracitato e imprescindibile alone di mistero e tralasciando la volontà di voler trovare una risposta univoca agli interrogativi sollevati. Come una sagoma che si staglia su uno sfondo nebbioso e per questo intrigante, i racconti su Fellini non possono avere fine perché illimitate sono le dimensioni esplorate da quest’uomo per cui la vita necessitava di rimanere un enigma, una forza non distorta dall’artificiosa conoscenza umana, ma libera di potersi espandere secondo logiche inconcepibili dalla razionalità degli uomini.
“Joker” di Todd Phillips a Venezia 2019
“Un fiore bellissimo nato sull’asfalto” è la metafora utilizzata dall’autore, la quale sintetizza efficacemente lo scontro tra l’anima tormentata del protagonista e il contesto brutale con il quale è costretto a scontrarsi. Qui, tra sorrisi pronti a tramutarsi in smorfie, Arthur comprende come le proprie spalle siano troppo esili per reggere il peso opprimente della cattiveria che lo pressa senza tregua. La follia allora diventa l’unica strada da intraprendere per instaurare un dialogo con la realtà, le irrefrenabili risate perdono l’asfissiante timbro gutturale ed esplodono in una straripante e malsana ilarità che trasforma il dramma in una commedia talmente tetra da risultare più dura e cupa della tragedia stessa. Una discesa senza possibilità di ritorno, coraggiosissima nel precludere ogni spiraglio di redenzione a un personaggio dalla massiccia carica empatica. Phillips tiene le redini col polso fermo di chi ha ben chiaro l’esito per il quale si sta adoperando e sfrutta la grottesca corporeità di Phoenix per enfatizzare le fasi salienti con sprazzi di terrificante poesia. La tensione è calibrata con sapiente maestria fino ad un atto finale in cui la potenza del racconto divampa in un climax ascendente di concitazione, efferatezza ed eleganza stilistica.
“L’ufficiale e la spia” di Roman Polański a Venezia 2019
Anziché concentrarsi sulle estreme ed immeritate sofferenze della vittima ingiustamente accusata di tradimento, Polański costruisce il proprio film attorno ad un personaggio che fu inerte testimone della condanna inflitta al capitano Alfred Dreyfus. Una scelta non indifferente che si ripercuote su vari strati dell’opera, a partire dalla focalizzazione dello sguardo che sin dall’inizio smentisce ogni intenzione da parte dell’autore di identificarsi con la vittima. L’innocente punito senza ragioni esiste ma, nonostante la sua presenza riecheggi in ogni scena, è relegato sullo sfondo. I riferimenti all’attualità sono presenti e talvolta clamorosamente attuali ma, nel delineare una minuziosa ricostruzione degli accadimenti storici che segnarono la vicenda, la riflessione sui torti subiti e sul processo di ricostruzione della verità assume una portata ampia e generalizzata, non più riconducibile alle questioni personali del regista. Un percorso sconnesso e dall’esito amaro, che rinviene nell’incessante tentativo di ricerca della giustizia il proprio centro tematico, nonché la forza propulsiva dell’azione.
“Dario Argento: soupirs dans un corridor lointain” al Cinema Ritrovato 2019
Ancor prima dello slancio politico e dell’inquieta introspezione psicologica, il comburente che alimenta la fiamma del cinema di Argento è rappresentato da una pura ed insaziabile passione cinefila. Sentimento che poggia le proprie robuste fondamenta su un approccio elementare all’arte della narrazione, insito in un senso di ammirazione fanciullesca immutato nel corso del tempo. Su questa disarmante semplicità pare soffermarsi con maggior interesse l’attenzione di Jean-Baptiste Thoret, il cui scopo in questo documentario è quello di definire la persona oltre l’icona e di restituirla allo spettatore come unica ed insospettabile fonte di creatività. Uno sguardo che intercetta il regista in due periodi distinti della sua vita, mettendone a confronto le minimali differenze per evidenziare invece la persistenza dell’indole pacata e teneramente ingenua.
“Crisis”, lo sfregio della guerra nazista
Non saremo mai stanchi di appassionarci alle storie riguardanti i tentativi di preservazione della libertà e la lotta alle ramificazioni delle forze ostili che cercano di corromperla e soggiogarla. Crisis propone una fra le più tristi di queste storie, partendo dal periodo in cui la Germania di Adolf Hitler arrivò all’attuazione dell’Anschluss, procedimento che prevedeva l’annessione dell’Austria al Reich tedesco. Evento in seguito al quale la vicina Cecoslovacchia si trovò incastrata nella morsa teutonica e iniziò ad inserire nella propria società una serie di misure precauzionali in vista di una possibile invasione.
Speciale “Noi” di Jordan Peele – I
Negli anni in cui l’horror d’oltreoceano attraversa un’incredibile momento di prosperità, contrapponendo blockbuster dagli straripanti successi commerciali a folgoranti ed ardite opere indipendenti, è singolare come Jordan Peele appaia costretto in un limbo collocato da questi due poli. Noi è una creatura difficilmente catalogabile, pervasa da una freschezza di messa in scena che fatica a trovare un atteggiamento parimenti temerario e compatto sul piano della logica narrativa. In un gioco che punta a disorientare, facendo perdere le coordinate dell’azione per poi tirare didascalicamente le fila in conclusione, l’esito può essere più frustrante che appagante; grande limite di un’operazione dal potenziale immenso e dal fascino innegabile, che conferma le qualità del suo artefice nei panni di abile narratore della contemporaneità.
Visioni italiane 2019: un bilancio
Nella conferenza stampa di apertura, la promessa era che questa edizione del festival avesse come particolare obiettivo quello di far emergere le varie modalità di espressione che compongono la nostra cinematografia, la maggior parte delle quali non trova una propria collocazione all’interno del mercato. A manifestazione conclusa, possiamo tranquillamente affermare come queste premesse siano state rispettate, consci di avere una visione più lucida e veritiera delle forze operanti nel nostro paese. La varietà dei linguaggi è stata certamente la cifra che ha caratterizzato la sezione principale del festival, dedicata ai corti ed ai mediometraggi di finzione, in cui è stata racchiusa un’eterogenea moltitudine di generi, forme e tematiche. Una varietà che trova la sua adeguata esemplificazione nell’eterogenea gamma dei film premiati dalla giuria principale (composta da Stefano Consiglio, Leonardo Guerra Seràgnoli, Federica Illuminati, Guido Michelotti ed Alice Rohrwacher).
“La favorita” e la vocazione popolare di Yorgos Lanthimos
Lanthimos si concede il gaudio di abbandonare le vesti di macabro artigiano di sinistri affreschi umani, per adagiarsi nei panni di uno zelante ed arguto cantore di vizi borghesi. Depositando le consueta armatura rivestita di ruvida asprezza, l’autore approda ad una dimensione giocondamente satirica, palesandosi attraverso una riconoscibile dose di grottesca follia, ma risultando ammansito da una limpidezza espositiva che fino ad ora gli pareva sconosciuta. L’approdo a questa nuova dimensione viene coadiuvato dalla magniloquenza di un apparato tecnico mai così sofisticato: le scenografie ed i costumi sontuosamente ricostruiti secondo i fasti dell’epoca ed il naturalistico compendio dei contrasti luminosi di una fotografia che intercetta gli echi kubrickiani di Barry Lyndon.
“Suspiria” – perché sì
Laddove Argento riusciva ad animare le proprie efferate scene di furia omicida investendole di una carica quasi sessuale, Guadagnino punta all’evocazione di una violenta aura funerea partendo dall’armonia coreografica di macabre sequenze danzate. Ma il principale tributo risiede, tuttavia, nella volontà di aggredire lo spettatore, giocando con le sue aspettative e stravolgendole con virate narrative inattese, attraverso un epilogo squilibrato e dirompente. Una cifra canonica del cinema di Arganto, il quale, nonostante l’inopportuno paragone con Hitchcock conferitogli all’epoca degli esordi, si è spesso distaccato dai convenzionali metodi di costruzione delle suspense in virtù di percorsi più tortuosi, imprevedibili e drastici. Con la medesima baldanza, Guadagnino mira alla preparazione del proprio gioco di prestigio confondendo e depistando gli sguardi al fine di garantire un’eco più roboante al lacerante affondo finale.
“Getaway!” e il lato selvaggio dell’America
Anche quest’anno abbiamo chiesto ad alcuni giovanissimi aspiranti critici di affrontare i classici e scrivere intorno a film del passato, ospitati dentro al Cinema Ritrovato 2018. Getaway! rappresenta ancora oggi un motivo di interesse per la sua rappresentazione di un lato selvaggio e violento degli Stati Uniti. Una sequenza come quella in cui il personaggio di Doc McCoy interpretato da Steve McQueen entra in un negozio di armi ed acquista senza nessuna difficoltà un fucile a pompa e dei proiettili per poi utilizzarli sia contro il l’uomo che glieli ha venduti che nei confronti dei poliziotti al suo inseguimento, rappresenta il piccolo ritratto di un’America terribilmente attuale.
“The Technicolor Reference Collection 3: The End – 1970-1974” al Cinema Ritrovato 2018
Come spiegato da Pogorzelski nella sua dettagliata introduzione, le copie proiettate nell’arco di questo incontro non erano, purtroppo, in condizioni ottimali per un motivo molto semplice: negli anni Settanta le pellicole a colori realizzate dalla Technicolor erano difficilmente soggette a scolorimento, ma altresì era difficile ottenere il medesimo livello qualitativo da tutte le copie. Alcune di esse presentavano delle colorazioni difettose e per questo motivo venivano distribuite nelle sale delle zone periferiche, caratterizzate da una minore affluenza di pubblico. Le copie di qualità migliore, invece, erano riservate ai cinema delle grandi città, dove potevano essere riprodotte di fronte a platee più vaste e con maggiore frequenza.
“Central do Brasil” di Walter Salles al Cinema Ritrovato 2018
Central do Brasil è uno dei film più recenti mostrati all’interno del Cinema Ritrovato. Uscito nel 1998, è stato realizzato in un periodo storico molto delicato per il paese sudamericano. Dopo venticinque anni di dittatura militare, instaurata nel 1964, e un primo tentativo decisamente problematico di ritorno alla democrazia tra il 1989 ed il 1994, i brasiliani si trovavano per la prima volta dopo decenni a poter vivere in un contesto civile e non oppresso. La necessità che pervase i cineasti contemporanei fu quella di tornare ad occuparsi liberamente di tematiche che fino a poco prima potevano essere soggette a censura da parte dello stato. Tra essi troviamo un allora poco più che trentenne Walter Salles, che attorno alla metà degli anni Novanta lavorava a un documentario su alcuni scambi epistolari risalenti agli anni precedenti. Proprio da queste corrispondenze, Salles estrapolò il materiale divenuto in seguito la base del suo film successivo.
“Ciò non accadrebbe qui” di Ingmar Bergman al Cinema Ritrovato 2018
A volte accade che alcuni artisti, per motivi più o meno evidenti o condivisibili, decidano di impedire la diffusione delle proprie opere. Se nell’antichità ciò avveniva addirittura tramite la distruzione delle proprie creazioni, oggi ciò si può verificare semplicemente attraverso un meccanismo di autocensura. Così è stato per Ingmar Bergman nei confronti del suo film del 1950 Ciò non accadrebbe qui, la cui diffusione venne ostacolata in un primo momento dal regista stesso e successivamente dai suoi eredi in seguito alla sua morte. La pellicola è ora stata diffusa in un numero limitato di copie in occasione del centesimo anniversario della nascita del sommo regista svedese. Una rarità dunque, per un film di cui difficilmente si trovano notizie anche nei numerosi scritti riguardanti la filmografia di Ingmar Bergman.
“Il settimo sigillo” e la Danza Macabra
La Danza Macabra, all’interno dell’immaginario tardomedievale, è un tema ricorrente capace di influenzare produzioni artistiche di vario tipo, dalle opere iconografiche fino alle composizioni musicali. In ognuna delle diverse rappresentazioni essa assume il significato di “memento mori”, diventando un rito, quasi un inno alla “grande consolatrice”. Con Il Settimo Sigillo, Ingmar Bergman ci propone la sua particolare visione della Danza Macabra, questa volta riprodotta grazie al filtro epico della macchina presa.
“Rosauro Castro” e la tirannia a doppio taglio
La forma tramite la quale Galvadòn presenta questi contenuti allo spettatore è quella di un’opera ibrida, che assume le vesti del western nordamericano classico per poi dare vita ad una narrazione torbida che acquisisce caratteristiche più vicine a quelle del Noir. Non a caso alla sceneggiatura troviamo Josè Revueltas, agguerrito socialista che avviò la propria esperienza come redattore di articoli di cronaca nera. Ciò che lo spettatore si trova di fronte è il racconto di una singola giornata nell’arco della quale il protagonista vedrà vacillare il proprio ruolo di dominanza all’interno di questo microcosmo in cui bene e male sono in costante conflitto. Una storia dai risvolti amari che mostra come la tirannia si possa sempre rivelare un’arma a doppio taglio.