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L’allegoria senza incanto di “Lazzaro felice”

Oggetto bifido, strambo, sbilenco, il terzo opus della regista sublima – come Garrone – un fatto di cronaca degli anni Ottanta e lavora ancora sulle inenarrabili meraviglie dei corpi celesti, imponendosi per ambizione e densità nel discorso sul sacro. Che magari è solo una suggestione di chi scrive, eppure appare così sottile da risultare davvero centrale. D’altro canto quale dovrebbe mai essere la prima impressione di fronte ad un film che elegge ad eroe titolare un personaggio dal nome tanto eclatante quanto paradigmatico? Ricordiamo che il Lazzaro biblico, resuscitato da Gesù, appare nei Vangeli per testimoniare il miracolo e più avanti per annunciarne l’imminente omicidio su mandato dei Sommi Sacerdoti, in quanto discepolo del Messia. Poi basta. Più che un personaggio, quasi una funzione che innesca – o perlomeno sollecita – il destino del protagonista, cioè colui che gli ha ridato vita.