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“Un giorno all’improvviso” e lo sguardo genuino

Trattare la malattia mentale non è operazione semplice e unirla al ruolo genitoriale complica ulteriormente le cose. Il cineasta lo fa con garbo, il suo sguardo è imparziale, grazie anche alla messa in scena essenziale che lascia libero spazio a madre e figlio, senza interventi di sorta. Si limita a seguire il decorso del loro rapporto senza strizzare l’occhiolino allo spettatore con trovate buoniste per lacrime facili. D’Emilio va oltre la maternità, oltre la malattia. Invita riflettere sulle difficoltà del divenire e dell’essere adulti, con dolore ma instancabile tenacia. Lo fa riuscendo ad evitare gli stereotipi, altra pregevole capacità dei nuovi autori del piccolo cinema italiano che non smette di proporci talenti meritevoli di attenzione.

“Un giorno all’improvviso” di Ciro D’Emilio a Venezia 2018

Opera prima, adolescente, disagio. Non proviamoci nemmeno a calcolare il numero di volte che abbiamo visto film fondati su queste tre caratteristiche. Aggiungiamoci anche il luogo, la provincia campana, ed ecco che il repertorio è al completo. Per fortuna, sulla carta Un giorno all’improvviso è più banale di quanto effettivamente non sia sul grande schermo, nonostante il manierismo dietro l’angolo. Al primo lungometraggio dopo quattro corti, Ciro D’Emilio segue l’antica convinzione che all’esordio si debba parlare di temi vicini dei quali si conosce abbastanza.