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Godard l’irriducibile
A colpi di inquadrature, o meglio di accostamenti tra inquadrature, si è scagliato contro le forme del cinema classico, il capitalismo, il pensiero unico. Di conseguenza, spezzando le catene, Godard ha creato un nuovo modo di fare cinema e un nuovo cinema, con uno spettatore-autore che colma le fratture elaborando i propri significati. Immagine e suono in costante dialogo, dove il suono è anche parola pronunciata e la parola scritta è anche immagine, e in cui il gioco di parole è una pratica del pensiero, come il montaggio.
Il mio Godard. Storia di un incontro speciale
Sapevo che a Rolle, piccolo comune che affaccia sul lago Lemano, viveva lui: Rue des Petites-Buttes. La mattinata comincia pigra e mantiene questo mood fino al primo pomeriggio, fino a quell’ultimo respiro che mi fa prendere quel treno alla ricerca di Godard. Mi sentivo un po’ Agnès Varda in Visages Villages. Cammino senza aspettative per qualche minuto, il tempo di raggiungere l’indirizzo, riconosco la casa con la veranda bianca. Si salvi chi può (la vita): in un secondo dalla porta della veranda si palesa un uomo sui novanta con un sigaro tra le mani e quella montatura di occhiali inconfondibile…
La genesi del mito. “Fino all’ultimo respiro” tra soggetto e spontaneismo cinefilo
Ecco come ci ricorda la genesi del film Alberto Farassino: ” ‘Un mese dopo l’uscita di I quattrocento colpi Godard mi ha chiesto di lasciargli la sceneggiatura di À bout de souffle per farla leggere a Georges de Beauregard. Era una storia che avevo scritto qualche anno prima’. È François Truffaut che ricorda come sia nato il primo lungometraggio di Godard, del quale risulta autore del soggetto mentre un altro amico, Chabrol, vi è accreditato come “consigliere tecnico”. Ma certamente i due nomi già affermati appaiono nei titoli di testa più come amichevole sostegno, e affermazione di una solidarietà di gruppo, che per il contributo realmente prestato. À bout de souffle non solo è, da cima a fondo, di Godard, ma è Godard”.
“Fino all’ultimo respiro” e la critica
L’uscita in sala della versione restaurata di Fino all’ultimo respiro ci consente di proporre – come di consueto nel caso del progetto Cinema Ritrovato al Cinema – un’antologia critica d’epoca e fino ai nostri anni. Affascinante, tra gli altri, l’approccio di Jean-Claude Izzo, grande scrittore di noir, che ha scritto: “Quando ha la meglio sulla poesia la realtà si traduce così: in variazioni sulla morte. Insomma, fino all’ultimo respiro. Non rivedere questo film (per la seconda o la centesima volta) sarebbe, come è stato scritto allora, privarsi di emozioni tra le più belle e forti che il cinema abbia proposto in questi ultimi tempi”.
“Fino all’ultimo respiro” secondo Jean-Claude Izzo
Dal magnifico scrigno del Catalogo “Il Cinema Ritrovato” 2020 emergono tesori come quello che, alla fine degli anni Ottanta, scriveva il grande Jean-Claude Izzo, ricordando la sua prima visione di Fino all’ultimo respiro. “Marzo 1960. À bout de souffle. Avevo quindici anni. Godard ventinove. Faceva dire a Belmondo (rivelazione di quell’anno): “Siamo tutti morti in libera uscita”. Non sapevo ancora che fosse una citazione di Lenin, né che Mozart potesse tradurre al meglio i sentimenti di un anarchico. Ad ogni modo, 87 minuti dopo ero letteralmente ridotto all’ultimo respiro, e per sempre adulto”.
Ripensando “Fino all’ultimo respiro”: la rivoluzione formale
Ripensiamo a una delle scene più analizzate di Fino all’ultimo respiro, in cui il rapporto causa/effetto che caratterizzava i personaggi nella narrazione classica si dissolve. La sequenza è ambientata in una camera dell’hotel de Suède, dove Michel e Patricia avviano un discorso che va a toccare amore, filosofia e letteratura. Gli scambi tra i due non sono tradotti per mezzo del tradizionale campo e controcampo, ma attraverso inquadrature in cui Jean Seberg e Jean-Paul Belmondo appaiono simultaneamente dalla stessa prospettiva. Godard incoraggiò gli attori ad estraniarsi dai personaggi e liberarsi degli artefici, così da rendere la scena estremamente spontanea. Nonostante lo spettatore sia consapevole di assistere ad un film – Godard d’altronde lo ricorda continuamente – allo stesso modo la purezza delle azioni di Belmondo e Seberg li fa sembrare protagonisti di un documentario sulla loro vita.
JLG/JLG – Autoritratto ad aprile
Godard non parla di cinema: parla cinema. Sembra che non gli importi rispondere con puntualità alle domande di Lionel Baier (in diretta su Instagram qualche giorno fa, e ora reperibile su Youtube) non più di quanto potrebbe importargli filmare un bel campo/controcampo rispettando la regola dei 180°. Se John Ford faceva il montaggio in macchina, Godard parla facendolo direttamente in testa. È spiazzante, perché si tratta di un montaggio discontinuo che attinge ad un archivio di figuratività profonda, tra una citazione e un’immagine evocata, tra una scena del Godard privato e un ricordo del Godard critico. Al tempo della pandemia, di sicuro lo scarto tra un taglio e l’altro assicura l’immunità dal “virus della comunicazione”, come lui stesso l’ha definito.
L’effetto cinema e l’effetto Léaud
Nel 1966 Jean-Pierre Léaud lavorava già da qualche tempo sul set con Godard, prima come tuttofare e poi come assistente alla regia; era già noto al pubblico del grande schermo per essere stato l’irrefrenabile “monello” de I 400 colpi. Quando Godard, che in un primo momento per il ruolo del protagonista ne Il maschio e la femmina aveva pensato a Michel Piccoli, cambiò idea e propose la parte al suo assistente Léaud, ebbe inizio il secondo periodo nella carriera dell’attore, che si affrancò così dall’identificazione con Antoine Doinel e contestualmente anche dalla figura di alter ego di Truffaut. Truffaut non perdonerà mai all’amico Godard di avere trasformato il suo Léaud/Doinel in un personaggio triste e sfortunato; fu quello l’inizio di un processo di allontanamento tra i due registi della nouvelle vague che culminerà nella decisiva rottura nel 1973.
“Le livre d’image” folgorante come un ordigno
Pochi giri di parole: Le livre d’image è la bibbia del montaggio inorganico. Tutto è materiale pulsante, il contenuto è inseparabile dalla forma. Archeologia di frammenti tra passato e presente che interroga il mondo del possibile, Le livre d’image è un film che produce film e dunque attiva mente e corpo di spettatori-autori. Troppo accade durante i novanta minuti della proiezione perché il materiale possa essere interamente digerito: ogni taglio di montaggio spalanca un abisso tra le immagini quasi sempre manipolate, la traccia audio è spesso stereofonica con sovrapposizioni di frasi; abbondano, come di consueto, i cartelli, mentre i sottotitoli, volutamente lacunosi, tratteggiano tutt’al più una sorta di sintesi di quanto accade, non certo una sua traduzione fedele. Lo shock che ne deriva è folgorante come un ordigno.
“Cannes 68. Révolution au Palais”, le voci nel cinema
È un documentario necessario, quello di Jérome Wybon, che raccoglie le voci – di allora e di ora – di una parte dei protagonisti di Cannes ’68, di critici e di accademici. Ma più che una Révolution au Palais unanimemente condivisa, quello che emerge dalle testimonianze e dai filmati sono i dubbi, gli scontri interni, le divergenze che c’erano tra gli operatori e gli addetti ai lavori dell’industria cinematografica presenti al festival in quei giorni. Passata alla storia un po’ come folclore, un po’ come pagliacciata, Cannes ’68 pare essersi poi rivelata la vera miccia del sessantotto francese. È a partire dalle marce di protesta del febbraio dello stesso anno, con la rimozione di Henri Langlois come direttore del festival, che iniziano le manifestazioni dei cineasti della nouvelle vague, con Godard e Truffaut in testa.
“Vento dell’est”, critica ideologica all’estetica cinematografica
Come tutte le pellicole del gruppo Dziga Vertov, Vento dell’est è una riflessione in fieri sul cinema attraverso il cinema e si potrebbe definire un cine-saggio, che non vuole né divertire né indottrinare, ma unicamente infastidire lo spettatore, per costringerlo ad esercitare una coscienza critica. A differenza di quanto accadeva in Week-end o La cinese, in cui ricercatezza tecnica e formale erano spinte al limite, allo scopo di rivelare l’artificialità della rappresentazione, in Vento dell’est l’estetica del film è subordinata al procedimento dialettico.
“Les Gauloises Bleues”, un film nouvelle vague
Il mio Godard di Michel Hazanavicius ha riportato all’attenzione Les Gauloises Bleues, un film quasi dimenticato di Michel Cournot. La vicenda è nota: il film di Cournot era in concorso al festival di Cannes nel 1968 quando l’affaire Langlois raggiunse la Croisette e le proiezioni vennero sospese. E Les Gauloises Bleues è l’unico tentativo alla regia di Cournot, amico di Godard e severo critico cinematografico per le pagine del Nouvel Observateur.
Il nostro Godard. “Week-end” e il potere sovversivo del paradosso
In questi tempi difficili, in cui è quasi più ricercato ridere di Godard che con Godard, pare appropriato riflettere su Week-end, a quasi cinquant’anni dalla sua uscita nelle sale, tanto più che essendo “un film perso nel cosmo” e ponendosi perciò come un reperto da (ri)scoprire, diventa un’esortazione alla cinefilia ritrovata. Apocalittico e tragicamente esilarante, è l’ultimo film che Godard affida al circuito ufficiale, prima di un rifiuto quasi totale dell’industria cinematografica che durerà più di un decennio.
“Il mio Godard” e le contraddizioni del mito smontato
Proponendolo con il titolo Il mio Godard, la distribuzione italiana induce a suffragare la prospettiva che Le redoutable sia la lettura personale di un autore, ovvero Michel Hazanavicius. E ciò nonostante all’origine ci sia Un année studieuse (da noi Un anno cruciale, Edizioni E/O, 2013), il memoir in cui l’io narrante di Anne Wiazemsky racconta gli anni accanto a Jean-Luc Godard. Il titolo originale del film significa “il temibile” e si riferisce ad un formidabile sottomarino il cui varo viene narrato alla radio anche per magnificare la potenza politica della Francia di De Gaulle.
Venezia Classici 2017: “Due o tre cose che so di lei”
In Due o tre cose che so di lei sembra quasi che Godard proietti nella protagonista la sua disillusione nei confronti della corsa al benessere economico: non a caso c’è dell’evidente simbolismo in quest’opera, dalla donna che allude alla città, una Parigi brulicante di quei viventi “già morti” al significato sociale del comportamento di Juliette. A prostituirsi sono lei e la città stessa, entrambe per assecondare le esigenze della società capitalistica.
Cinema Ritrovato 2017: “Effetto notte”
“Sei un bugiardo” scrive Jean-Luc Godard a François Truffaut dopo aver visto Effetto notte (1973). Per l’autore de I 400 colpi è il film della sintesi, un tirare le somme sul suo lavoro di cineasta capace di diventare una dichiarazione di poetica. La pellicola si trasforma suo malgrado nel fattore scatenate della rottura definitiva tra i registi che erano stati la scintilla propulsiva della Nouvelle Vague. Una separazione netta tra due sensibilità sempre più distanti, tra due modi di vedere il cinema e la vita dopo il ’68.
Cinema Ritrovato 2017: su Brigitte Bardot o la GIF ante litteram
Brigitte Bardot: la donna più fotografata degli anni Sessanta. Brigitte Bardot: chiamata da Godard per recitare in Il disprezzo, ci dice Jacques Rozier nel documentario Le parti des choses, non a interpretare il personaggio di Camille, bensì a recitare se stessa. BB è l’icona, BB è la diva europea degli anni d’oro della Nouvelle Vague. Ma che cosa vuol dire rappresentare una diva in quanto tale? Come si può dar conto del processo di iconizzazione, esprimere il modo in cui esso agisce all’interno dell’immaginario?
Cinema Ritrovato 2017: Rozier, Bardot, Godard, Vigo e altre storie
Jacques Rozier è stato forse uno dei registi più emblematici della Nouvelle Vague, Desideri nel sole (1962) resta il suo più celebre lavoro ed è con questo e con il precedente Blue Jeans (1958) che si guadagna la stima di Jean-Luc Godard utile a presenziare alle riprese del Disprezzo durante le quali può dedicarsi alla realizzazione di due interessanti cortometraggi, Paparazzi e Le parti des choses: Bardot et Godard (1963).