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“Dolor y Gloria”, il cinema e il tempo che passa
Ci stupisce questo film, che nello stile non sembra quasi appartenere ad Almodóvar ma che è completamene fatto di lui e del suo cinema. Ci inchioda alla sedia della sala questa narrazione asciutta, sobria, matura, quasi trattenuta che si veste dei suoi soliti sgargianti colori – su tutti il verde, il rosso e l’azzurro – ma senza il sovraffollamento barocco a cui ci ha abituati. Ci incanta questo racconto che cita continuamente le pellicole passate e la sua vita presente, ma che travalica il dato biografico per diventare riflessione sul tempo che passa e in fondo anche sul cinema, sulla sua genesi e sul suo mutare.
“Dolor y Gloria”, cinema che genera cinema
Arrivato a settant’anni, che compirà fra qualche mese, Pedro Almodóvar si sente fragile, nel corpo e nella mente, e anche per questo desideroso di ricordare il suo passato, celebrare l’amore per sua madre e quello che da lei ha ricevuto, ringraziare il pubblico, i suoi attori, il cinema e l’uomo della sua vita. Scrive un film su di sé, in bilico fra autobiografia fedele e verosimile, si fa interpretare dall’attore più rappresentativo del suo cinema (Banderas), e affida il ruolo della mamma di Pedro bambino all’attrice che lui più di tutti ha contribuito a far sbocciare (Penelope Cruz). In un moltiplicarsi irregolare di proiezioni di sé, dietro cui nascondersi e mostrarsi come mai prima, si accomoda sul lettino dell’analista e svela in una seduta dall’andamento circolare i suoi acciacchi, la depressione, le ferite e le scoperte dell’infanzia, l’omosessualità e il potere del cinema.