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Vite ai margini e storie senza tempo nel cinema di Pietro Marcello
Il cinema “documentario” di Pietro Marcello assomiglia a una devota manipolazione del reale: non una registrazione nuda del racconto, ma una sfida allo sguardo e alle percezioni, mai “tracotante” e carica di una cura estrema nei confronti dei soggetti prescelti. È il caso de La bocca del lupo, che giunge con soluzioni imprevedibili a illuminare i carrugi di Genova per raccontare la storia d’amore tra l’ex detenuto Vincenzo Motta e la transessuale Mary Monaco. Il film alterna con naturalezza disarmante scampoli di vita e materiale d’archivio – sapientemente ricercato e montato da Sara Fgaier – dispiegando un racconto che resta tenacemente al servizio delle immagini. In Marcello, del resto, persiste un’autentica venerazione per le molteplici possibilità dello spazio filmico, come ne Il silenzio di Pelešjan, che compone un ritratto attraverso quel “montaggio a distanza” tanto caro al cineasta armeno che sceglie di omaggiare.
“Martin Eden” di Pietro Marcello a Venezia 2019
Pietro Marcello come in La bocca del lupo cerca anche per Martin Eden uno sguardo che catturi l’intimità, i pensieri e le azioni del protagonista conservandone una grandiosa potenza. Evitando gli eccessi compone un’opera intrisa di “un appassionato realismo”, come lo è il Martin Eden di London, e costruisce un personaggio in cui tutti possono vedere se stessi. Guardare il signor Eden nella sua disfatta fisica e psichica è doloroso, anche se Pietro Marcello nel suo film avrebbe potuto approfondire ulteriormente questa seconda parte con le immagini piuttosto che con le parole. Infatti Martin Eden è davvero un racconto per immagini, un insieme di quadri che mostrati allo spettatore, dal primo all’ultimo, lo affascinano per la sua perfezione ed il suo realismo.