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“Mickey 17” speciale III – Da pindarico a ordinario

Mickey, tratto dal romanzo Mickey 7 di Edward Ashton e interpretato da Robert Pattinson, è condannato dal suo morire continuamente a soffrire senza poter morire mai, e trattato dagli altri come se la sua vita non avesse nessun peso, perché non lo ha la sua morte. In lui Bong trova il perfetto exemplum per stigmatizzare fenomeni che chiaramente gli stanno molto a cuore, come l’iniquità sociale e le storture del capitalismo, dal fronte orientale a quello occidentale.

“Mickey 17” speciale II – Il cinema multiplo

Nonostante Bong abbia confermato di aver avuto il final cut, smentendo in parte le voci che parlavano di scontri con la Warner, i rinvii legati agli scioperi hollywoodiani e le reazioni critiche tiepide hanno comunque gettato un’ombra su quello che doveva essere il suo grande ritorno dopo il trionfo di Parasite; un’aria di fallimento cui oggi si somma quello politico delle ultime elezioni Usa, rispetto a cui Mickey 17 si mostra insieme profetico e tragicamente sconfitto dalla storia.

“Mickey 17” speciale I – Il parossismo della disuguaglianza

Ritorna il tema della diseguaglianza sociale, qui portato al parossismo, così come l’ambientazione si-fi innevata, il simbolismo legato al cibo, la mutilazione fisica. Non mancano momenti di tensione e di crudele ironia, ma il mood complessivo dell’opera disinnesca a priori qualsiasi aspettativa di tragicità e la trama scorre senza intoppi né lungaggini, passando attraverso scenografie di tutto rispetto verso un finale pulito, soddisfacente e insipido.

“Memorie di un assassino” sulle tracce di Bong Joon-ho

Non ancora così high-concept, il Bong di Memories Of Murder (assieme a quello pluripremiato del monster movie Host, 2006) rischia paradossalmente di restare il più universale, regista già maturo e maniacale alle prese con una sceneggiatura meno schematica che in futuro, capace di lasciar “respirare” la sua messa in scena in larghi, morbidi cerchi concentrici che scavano solchi profondi e quasi metafisici di buio e smarrimento.

“Cane che abbaia non morde” e il cinema del sottosuolo

Riconosciamo l’insolubilità di registri (satira sociale, melodramma domestico, orrore suburbano) che Bong eredita dalla contradditoria storia dell’industria cinematografica coreana. Il regista di Taegu esplora con curiosità etologica il sottosuolo strutturale e morale del proprio paese (forse di ogni paese), brulicante di affaristi, pusillanimi e idealisti delusi, con toni tanto violenti e onirici quanto parodici presi in prestito da Panelstory di Vera Chytilova, sorta di novellino sui prefabbricati sovietici in costruzione.

Le ostiche verità di “Snowpiercer”

Il treno rappresenta, ovviamente, la società contemporanea. Intrappolati in una parodia ante litteram del pensiero accelerazionista, gli uomini si trovano a bordo di una macchina condannata alla corsa perpetua, la cui unica possibilità di sopravvivenza è rappresentata dal mantenimento della propria velocità di crociera. Fuori, ci viene detto, c’è solo freddo e morte. La vita a bordo dello Snowpiercer è organizzata secondo rigidi criteri post-fordisti. Snowpiercer, similmente a Parasite, si propone di insegnare allo spettatore una verità semplice quanto ostica: impara il tuo posto e mantienilo. Rifiutalo, e tutto ciò che hai intorno andrà in pezzi.

Bong Joon-Ho e l’eredità di “Il silenzio degli innocenti”

Non stupisce che un autore così politico e attento al racconto della stratificazione sociale come Bong Joon-Ho possa aver trovato un film-faro in Il silenzio degli innocenti, citato e rielaborato con tale insistenza da dare la sensazione di potervi ricondurre gran parte della sua opera come a una matrice originaria. Se quasi subito non sembrò casuale la scelta di inserirsi con Memories Of Murder (2003) proprio nel filone serial killer inaugurato dal film di Demme (per arrivare al limite del calco nella sequenza dell’autopsia, col rinvenimento di un corpo estraneo in un orifizio della ragazza assassinata) da allora il debito si è rinnovato film dopo film, informando molti dei principali tòpoi del cinema del sudcoreano.

“Parasite” e il paradosso del nucleo famigliare

Quello che il regista Bong Joon-ho porta in scena nel suo ultimo lungometraggio è un mondo impostato su una struttura verticale. O meglio, è il nostro mondo, quello che affolliamo quotidianamente, ma riproposto attraverso una realtà diegetica compartimentata, in cui gli spazi si fanno indicatori della condizione sociale degli individui che li abitano. In questo modo, l’eloquente esordio raffigurante i membri della famiglia al centro della storia costituisce immediatamente una calzante definizione dello stato in cui versano i personaggi. A Seul, in un’angusta dimora sotterranea, fratello e sorella impugnano i loro cellulari e tendono le mani verso l’alto cercando di agganciarsi alla connessione wi-fi di un appartamento superiore. I genitori li osservano mestamente, ormai rassegnati all’essenzialità che connatura la loro condizione ed all’impossibilità di abbandonare quella residenza suburbana.