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“L’accusa” e il fraintendimento dell’equidistanza

Già dalla presentazione a Venezia 2021, ha causato molte polemiche il nuovo film di Yvan Attal, L’accusa, evidentemente ben conscio del ginepraio nel quale si stava andando a infilare eppure zelante nell’argomentare in lungo e in largo sulle famose “zone grigie” del consenso sessuale, cifra distintiva della Francia nel dibattito globale sul #MeToo. Attal parte dal romanzo Le cose umane di Karine Tuil ben attento a non privilegiare alcun punto di vista, interessato a portare in campo il più ampio spettro di opinioni possibile e a filmarle senza commenti o sottolineature d’enfasi – con tratti sorprendentemente simili al recente analogo processuale La ragazza con il braccialetto.

“The Last Duel” spietato affresco di indistinzione morale

The Last Duel utilizza la violenza per dipingere uno spietato affresco di indistinzione morale, meschinità e bruto egoismo. In questo sempre più simile a Kubrick, la cui carriera a tratti sembra aver scientemente ricalcato (I duellanti/Barry Lyndon, Alien/2001). Scott tocca qui un vertice assoluto del suo nichilismo misantropico: uomini senza alcun eroismo giostrano come i satelliti in moto inerziale di un Potere gelido e vacuo, così assurdo da rasentare il comico (la grande, saggia prova di Affleck) in nome di un Dio che non c’è, o se c’è è un dio infantile, “più umano dell’umano” e sadico, il Commodo di Il gladiatore, il dio bambino di Exodus. Il miglior Scott dai tempi di American Gangster?