Archivio
“Wolfs” e il potere dell’alchimia
Vecchie glorie dei bei tempi andati? No, solamente vecchi. In tal senso, l’omaggio ai corpi di Clooney e Pitt è forse quanto di più semplice, elementare e sbagliato ci sia all’interno del film (siamo ancora fermi ai dolori alla schiena o agli occhiali da vista per proporre l’autoironia incentrata sulla decadenza fisica?), ma proprio per questo riuscito, poiché in grado di mostrare il fianco alla componente più umana e genuina che Watts vuole esaltare.
“Twisters” nella furia degli elementi (americani)
Fateci caso: quanti simboli dell’iconologia statunitense vengono contemplati dalle cineprese della regia? Il western, il baseball, le bandiere, il divismo e via dicendo. Twisters lavora su questi elementi del passato per tematizzare un presente muscolare e spietato, che cerca un confronto con i tempi che furono per prevaricarli e poter mettere in bella mostra la sua più sgargiante e magnetica forma estetica senza dimenticarsi, però, di ricordarsi e ricordarci quale sia l’origine della sua natura.
“Inside Out 2” dove tutto è al posto giusto (anche troppo)
La regista esordiente Kelsey Mann “si limita” a portare in scena il copione rispettando i riferimenti creativi alla base del successo del 2015, lavorando quindi su forme, colori e dimensioni in grado di abbracciare il pubblico più largo possibile, dalle platee più infantili a quelle più cinefile e accorte. Tutto è al posto giusto, diventa difficile recriminare qualche sbavatura e il film non può che appagare il pubblico di ogni età (si veda lo strepitoso successo al botteghino mondiale).
“Augure” e l’identità in tutte le sue forme
Non deve sorprendere il fatto di trovarci dinanzi a un film disorientante, ambizioso nel suo sguardo, con uno stile in perenne mutamento. Le tematiche che emergono dal racconto sono diverse: si va dall’appartenenza alle proprie origini sino al colonialismo, passando per il razzismo, il patriarcato ancestrale, l’invadenza dei rituali religiosi, la difficoltà di far conciliare la tradizione al proprio percorso individuale etc. Ma è l’identità, in tutte le sue forme, in tutte le sue sfaccettature, la vera protagonista di Augure.
“Soul” e l’anima della Pixar
Disney distribuisce in sala Soul (2021). Per godere appieno di questo lavoro si potrebbe, anzi, si dovrebbe spogliare lo sguardo da qualsivoglia componente critica. Si dovrebbe ridere, piangere, emozionarsi e seguire Joe e 22 in una New York magnifica e decadente, inebriarsi delle note musicali suonate in un locale jazz e di quelle cromatiche orchestrate dai registi. Bisognerebbe lasciarsi pervadere dalle immagini e dare poca retta alle morali filosofiche ed esistenziali. Insomma, liberarsi di tutta la teoria per andare al cuore, pardon, all’anima del film.
“Il ragazzo e l’airone” speciale II – Lo spirito della Terra
Il ragazzo e l’airone sembra non risentire minimamente del tempo trascorso, per via della sua coerenza tematica e autoriale che lo inserisce perfettamente nella filmografia più recente del regista nipponico. Con quest’opera infatti, Miyazaki chiude la sua personalissima trilogia degli elementi. Dopo essersi inabissato nelle profondità marine con Ponyo sulla scogliera e aver scalfito l’Aria con il già citato Si alza il vento, con questo terzo appuntamento l’autore giapponese fa i conti con la Terra.
“Wish” ma non posso. Il bigino dei 100 anni Disney
Da una parte Wish è il nuovo segmento di un percorso ben attento a non pestare i piedi a nessuno, che dà vita a narrazioni costantemente equilibrate, giustificando ogni singola azione, scelta o pensiero dei suoi personaggi per cercare di non creare malumori, disuguaglianze o discriminazioni. Dall’altra, il film coglie pigramente l’occasione di omaggiare tutti i classici che l’hanno preceduto, fornendo un’occasione giocosa ma fine a se stessa.
“Mary e lo spirito di mezzanotte” minuzioso e internazionale
Enzo D’Alò guarda all’Irlanda trovando in Roddy Doyle la penna con cui confrontarsi. Sa bene di avere tra le mani del materiale ottimo per la sua sensibilità. Dunque, con la giusta esperienza maturata in carriera, rilancia la sfida concentrandosi, come forse mai fatto in maniera così ambiziosa sino a oggi, sulla forma del suo film. L’animazione ha un sapore internazionale per la fluidità del tratto e la complessità della regia.
“Dogman” malinconico post punk
Il film è il frutto di una commistione culturale, che guarda al cinema di genere, ad accattivanti soluzioni stilistiche, all’importanza della musica come valori aggiunti nella messa in scena e alla costruzione di un personaggio iconico che sia specchio della contemporaneità. Besson evidenzia in maniera ancora più marcata, rispetto a quanto fatto in passato, la sua duplice natura: da una parte il regista ribelle e insofferente alle regole (quasi post punk), dall’altra l’autore dalla vena malinconica.
“Assassinio a Venezia” e la metafisica calcolata
L’eccessiva centralità di Branagh si avvertiva già nei primi episodi, non è di certo una novità. Qui però emerge in maniera troppo evidente quanto l’unico a divertirsi sia proprio il regista stesso. C’è uno scollamento importante tra l’ambizione potenziale del film e la resa sul grande schermo. Branagh si aggrappa in maniera ferrea a un immaginario antico, superato, con inquadrature insistentemente oblique, tagli di luce che vorrebbero rimandare ai misteri delle sedute spiritiche o primi piani mirati a inchiodare i personaggi come fossero streghe da condannare al rogo medievale
“Oppenheimer” speciale I – Classico e contemporaneo
Oppenheimer è un film classico ma al tempo stesso assai contemporaneo, un lavoro di ricerca quasi filologica su un immaginario che ha contribuito a rendere grande un cinema e una nazione, un racconto su un uomo che ha cambiato le sorti del pianeta. In tal senso è probabilmente il lavoro più autobiografico di Christopher Nolan, un film in cui regista, protagonista e pellicola in sé si relazionano alla stessa maniera e si sovrappongono sull’orlo di una voragine profondissima.
“Ruby Gillman” e i tentacoli del già visto
Tutto è già ampiamente visto, prevedibile e privo di appeal. I detrattori urleranno nuovamente al plagio nei confronti della rivale Pixar (in effetti ci sono diversi punti in comune sia con il Luca (2021) di Enrico Casarosa che con Red (2022, diretto da Domee Shi) ma la questione più deludente di Ruby Gillman non è la sua scarsa originalità nei confronti dei concorrenti, quanto il suo pigro smalto che rende il progetto tra i più dimenticabili e anonimi tra quelli mai realizzati in casa DreamWorks.
“Elemental” o elementare?
Quello che ci sorprende notare oggi, però, è che più di un film elementale, più che una summa delle parti che lo hanno preceduto, Elemental sia un film elementare. Sotto la superficie (sempre impeccabile, ma priva di vere intuizioni che vadano al di là della più che lodevole resa estetica) si percepisce lo sforzo di un regista ingabbiato da una produzione troppo invadente.
“Ant-Man 3” senza gambe e senza slancio
Se tutto fila da un punto di vista progettuale e nell’ottica di un disegno più ampio, resta però indubbio che il film di Peyton Reed non riesca mai a interessare, sorprendere o incuriosire più di così. Se il suo protagonista riesce ad adattare le sue dimensioni in un battibaleno passando da forme pachidermiche a microscopiche, la tensione evolutiva di Ant-Man 3 non è assolutamente all’altezza dimostrando di voler provare a concorrere nel campionato dei più grandi senza avere le gambe, lo slancio e la forma mentis necessaria per farlo.
“The Fabelmans” Speciale I – La fede nel cinema
The Fabelmans è sì un tuffo nella vita del suo regista ma, di conseguenza, si rivela un viaggio all’interno della sua filmografia. Non si contano gli spiritosi omaggi e le rime interne che rimandano ai suoi film precedenti (le biciclette di E.T. l’extra-terrestre, il manuale su come salvare qualcuno che sta annegando, la porta retroilluminata di Incontri ravvicinati del terzo tipo, la guerra di Salvate il soldato Ryan ecc.), questo perché la vita di Spielberg non è stata accompagnata dal cinema, ma perché è essa stessa cinema, una medicina che rende migliore la vita, che le dà più sapore.
“Il gatto con gli stivali 2” spartiacque per l’animazione a venire
Il film è un carnevale di colori, canzoni, luci, montaggio dal ritmo serratissimo, trovate visive in grado di amalgamare e far dialogare perfettamente l’animazione digitale con quella tradizionale. Insomma, è uno dei lungometraggi meglio diretti che siano stati realizzati negli ultimi anni e tutto l’entusiasmo e la grinta visiva espressi dalla prima sequenza incantano non solo per una questione formale, ma soprattutto perché connotano a meraviglia il protagonista e il percorso al quale sarà sottoposto.
“Strange World” usato sicuro
Mentre scorrono i minuti, sembra di sentire il rumore delle pagine del copione che vengono girate dai registi. Tutto è al posto giusto, nulla vibra di emozione, di genuinità. Ogni singola svolta narrativa è ampiamente prevedibile, già vista e quel che convince ancora meno è la poca creatività e fantasia che vengono adoperate per dare vita al fantomatico “strano mondo” del titolo. Il viaggio intrapreso ai confini dell’universo non incanta, non abbaglia. Strange World gioca sulla difensiva, sull’usato sicuro, consapevole di poter comunque vivere di rendita e sedersi sugli allori di un momento produttivamente importante per lo studio.
“Wendell & Wild” tra animazione e cinema delle origini
Selick si prende i suoi tempi. Osserva l’evolversi della società, dei costumi, delle mode, del gusto del pubblico e torna in scena quando sente di avere qualcosa di importante da urlare a gran voce, quando avverte che una generazione di spettatori è cresciuta ed è quindi tempo di proporre loro qualcosa di diverso. Ed è proprio su questa doppia sfida che si basa il suo cinema. Un cinema che si nutre di un ossimoro interno coerente ed efficace, un cortocircuito scivoloso e ambizioso da perseguire, ma che l’autore dimostra sempre di saper controllare con grande sapienza e creatività.
“Lightyear – La vera storia di Buzz” e il nuovo viaggio della Pixar
L’anno luce che dà il titolo al film, se nel primo capitolo di Toy Story serviva a connotare il personaggio come un alieno, qui rispecchia la quintessenza della Pixar: una casa di produzione che un tempo era proiettata anni luce in avanti rispetto la produzione mondiale, ora rischia invece di restare sola e distante, troppo distante, sia da chi, crescendo, ha sempre seguito e condiviso passo dopo passo tale percorso, sia da un pubblico diverso che lungo gli anni è stato poco considerato ma che ora, per andare oltre l’infinito, diventa vitale riportare al centro.
“Bad Roads” e la crisi dei conflitti irrisolti
Bad Roads racconta la paura e la tragedia della guerra del Donbass, ma non le porta mai in scena. Proprio come i luoghi di ambientazioni e i connotati dei personaggi, anche il dramma a cui si fa riferimento è universale e intercambiabile con qualsivoglia conflitto. Non si tratta di un film sulla crisi dell’Europa orientale, quanto sulla crisi umana. Le strade sbagliate presenti nel titolo non sono quelle percorse erroneamente da alcuni personaggi, quanto quelle lastricate da anni e anni di conflitti irrisolti, di odio e tensione repressa che, inevitabilmente, prima o poi vengono a galla.