Archivio
“Dal pianeta degli umani” e il cinema di pensiero di Giovanni Cioni
In un montaggio d’impulso, associativo, la storia procede via via in una stratificazione temporale e materica: dai filmati d’archivio allo sci-fi degli anni ’40, dai filmini domestici e rivieraschi agli occhioni lucidi di anfibi notturni: il cinema di Cioni non è tanto di parola quanto di pensiero, un discorso che si muove libero tra le diapositive e le voci narranti — che sfiorano i saggi di Chris Marker — e il ragionamento individuale mosso secondo la logica chiusa e inoppugnabile della riflessione privata, dell’investigazione personale condivisa in fieri.
“Milano calibro 9” cinquant’anni dopo. La città di zucchero e catrame
In una sorta di determinismo ambientale le storie sulla mala milanese non permettono di raccontare i personaggi senza prima mostrare nel dettaglio i luoghi che abitano. E così le ambientazioni di Scerbanenco prima, e di Fernando Di Leo poi, hanno il pregio di sopravvivere a una Milano che cambia, sovrapponendosi alla topografia di una città nuova e smagliante, che per niente al mondo ora ricorda quella precisa rarefazione di Milano Calibro 9 o la precarietà dei cantieri e degli sfasciacarrozze di La Mala ordina (sempre del 1972, il secondo film della cosiddetta trilogia del milieu) .
L’avventura viene dal mare. “Frenchman’s Creek” di Mitchell Leisen e la contaminazione dei generi
Indiscutibile che la linea principale del romantico melodramma sia visitata da momenti comici, musicali (la ciurma non fa altro che cantare) e di azione. Ma è più interessante la messa in scena sgargiante, assecondata dal vivace technicolor, di un regista che ha iniziato la sua carriera come costumista e scenografo, e qui il suo contributo è evidente: gli abiti aristocratici della protagonista sono divertenti da guardare, tanto quanto le decorazioni quasi eccessive di ogni interno che vediamo. Leisen è un esteta consapevole e si ferma poco prima della linea che separa l’intrattenimento dal kitsch.
Crisi identitaria di un borghese. “Sangue alla testa” di Gilles Grangier
Con Sangue alla testa Gilles Grangier torna a lavoro con Gabin, Audiard e Simenon (un anno dopo I giganti del 1955), in un insolito noir tratto dal romanzo dello scrittore belga. Nei dialoghi intelligenti scritti di Audiard si incontrano l’impertinenza parigina e la sagacia provinciale, mentre il contributo di Simenon, al di là della base narrativa, si ritrova anche nell’ambientazione: La Rochelle, cittadina prediletta dallo scrittore, è la lo scenario perfetto per una storia che parla di relazioni e reputazioni in provincia: ua cittadina portuale economicamente legata al mercato peschereccio, che Grangier si occupa di raccontare con esattezza documentaristica.
I bassifondi tra Gor’kij e Renoir. “Verso la vita” di Jean Renoir
Jean Renoir dirige Jean Gabin e Louis Jouvet nel libero adattamento del testo teatrale di Gor’kij. Se nel 1902 Gor’kij colloca ogni vicenda dentro le mura dell’oscuro dormitorio sul Volga, trentaquattro anni dopo Renoir vi evade già dalla prima scena. Mentre il testo teatrale rappresenta un’umanità misera e immobile, Renoir emerge dall’abisso ipotizzando la possibilità di un riscatto. Insomma i bassifondi del drammaturgo sono molto distanti da quelli del regista. Gabin trentenne, da poco avviato al successo (proprio intorno al ‘36 interpreta i suoi ruoli più fortunati) è un ladro che desidera una vita onesta con la sua amata, ma sarà ostacolato dall’avido proprietario del rifugio e dalla sua gelosissima moglie, sorella della ragazza.
Apologia delle commedie frivole. “Il Diavolo Veste Prada” rivisitato
Gli incarichi folli, l’ambiente lavorativo grassofobico, la vita privata appesa a un filo: le ordalie della giovane assistente sarebbero degne di un thriller psicologico, eppure si travestono di un’apparente frivolezza. È il pregio dei chick flick, termine in teoria derisorio e screditante (“film da femmine” è forse il corrispettivo italiano più accurato) che dovrebbe reclamare una ri-semantizzazione più entusiasta e accogliente: oltre a raccontare una storia di crescita, ambizione e corruttibilità, la sequenza della metamorfosi di Andy — da brutto anatroccolo a impeccabile donna in carriera — ha il primo grande pregio di essere divertente.
Dell’amore o della solitudine. “Happy Together” come resoconto emotivo
È il terzo appuntamento in sala con Wong Kar-wai. Grazie all’operazione di ridistribuzione di Tucker Film, dopo il restauro in 4K per mano della Criterion di New York e L’Immagine ritrovata di Bologna, Happy Together torna sul grande schermo ventiquattro anni dopo il premio per la miglior regia al 50esimo Festival di Cannes. Tra vecchi monolocali bonaerensi, tango bar e troppe sigarette due uomini hongkonghesi si trovano alle prese con la loro relazione instabile e nociva. Al solito si parla di rapporti. Cina o Argentina, nei film di Wong si ha sempre l’impressione che l’amore sia l’unica cosa narrabile, l’unica capace di generare conflitto o risolverlo.
Quando Caetano Veloso dedicò un concerto a Giulietta e Federico
Un caloroso applauso di benvenuto subito interrotto dalle note di un violoncello: il pubblico precipita in un silenzio incantato, sembra piombare in un’atmosfera metafisica lontanissima. Il tema accennato è lo stesso de La dolce vita, stavolta cucito su misura dall’arrangiamento di Jacques Morelenbaum e dai versi in portoghese composti da Caetano stesso. È il 30 ottobre 1997 e la sua voce riempie il modesto Teatro Nuovo di Dogana nella Repubblica di San Marino. E non è un caso che la data del concerto coincida con l’anniversario di matrimonio di Giulietta Masina e Federico Fellini.
“Malcolm & Marie” non parla di amore
L’irresistibile carisma dei due attori si fa carico di una scrittura dall’impianto teatrale in cui l’unità di spazio e tempo è deliberatamente appesantita da monologhi tracotanti e un po’ buffi, spesso simili a comizi, col vizio di essere meno accessibili al largo pubblico, a vantaggio di qualche compiaciuto sfoggio cinefilo. Così in poco meno di due ore si menziona un’impressionante vastità di temi, alcuni molto specifici e altri che incoraggiano una facile identificazione — l’amore di coppia, l’egoismo, la vanità, il razzismo, gli stereotipi, la cinefilia, la politica — sebbene l’interrogativo più appassionante resti uno: qual è il limite tra rappresentazione e appropriazione?
Levinson è il primo a sollevare a parole questa incertezza, ma la risposta non è chiara.
“Farewell Amor” e la musica come vettore emotivo
Farewell Amor, accolto con entusiasmo al Sundance 2020 e distribuito in Italia sulla piattaforma MUBI, racconta il difficile ricongiungimento di una famiglia angolana dopo una lunga separazione. La volontà di Ekwa Msangi, regista e sceneggiatrice al suo lungometraggio di esordio, è quella di lasciare sullo sfondo un discorso di denuncia politica, senza però depotenziarlo, per concentrarsi piuttosto sulle complesse dinamiche relazionali, regolate all’interno di uno striminzito bilocale di Brooklyn, nel tentativo di una reintegrazione. Al posto di litigi enfatici e drammi da cucina, Msangi lascia spazio ai piccoli aggiustamenti e alle interazioni discrete.