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“Kinds of Kindness” speciale I – L’hula hoop d’autore
La libertà che Lanthimos si è giustamente conquistato viene investita in un interessante esercizio dove alcune delle modalità di rappresentazione del regista vengono scritte e riscritte provando delle varianti. Senza spostarsi dal suo naturale baricentro (siamo difatti a un ritorno al suo cinema “greco”), Lanthimos continua un percorso di sperimentazione teso tra familiarità e diversione. Fa l’hula hoop? Potrebbe essere una metafora calzante?
“I dannati” e la separazione dal mondo
Man mano che I dannati procede, il gruppo dei protagonisti si frammenta, i personaggi cambiano, le aspettative e le illusioni cedono, lungo un percorso ossimorico di dannazione e di ascetismo, di separazione dal mondo. Un lavoro unico che vuole riappropriarsi di un modo di conoscere e riscrivere la storia, grazie a un regista che non si lascia guidare solo dalle proprie intuizioni, bensì recepisce ed elabora le tensioni del mondo esterno, presente, passato e forse un po’ anche futuro.
Il caso “Tutti tranne te” e la nuova commedia romantica
Partendo dal presupposto che la commedia romantica è un genere che non permette particolare originalità, poiché la narrazione deve passare da una serie di stazioni fondamentali (l’incomprensione, il confronto, la riappacificazione), gli elementi su cui lavorare creativamente sono i personaggi e il setting. Costruendo personaggi ben caratterizzati le dinamiche si animano e si diversificano, e qui è la caratterizzazione di Sidney Sweeney a trascinare con sé il pubblico.
“Past Lives” speciale I – L’equilibrio tra detto e non detto
Questo è un indie movie romantico, agrodolce ma venato di ottimi momenti comici, e ciò forse permetterà anche una approvazione generale al di là dell’età: dai più anziani che amano Harry, ti presento Sally ai giovanissimi che forse saranno più attratti dalla componente di cultura coreana, fino ai critici coetanei della regista, più attenti sia al buon cinema che alle micro tendenze che di giorno in giorno possiamo osservare in questa industria.
“Pacifiction” speciale I – La minaccia fantasma
Albert Serra si è infatti distinto per uno stile particolare e molto riconoscibile, in cui a una ricerca tecnica ed estetica molto raffinata si unisce la rappresentazione di storie mortifere che si dipanano lentamente, concedendo tutto il tempo allo spettatore per immergersi in un ritmo pacato, fluido e riflessivo. Il tema del potere e dell’immagine degli uomini che lo detengono è ricorrente nella sua filmografia. E torna anche in Pacifiction, che abbandona l’ambientazione storica che aveva contraddistinto tutti i suoi film precedenti per portarci nella Tahiti degli anni ‘90 a seguire le attività del fittizio alto commissario dell’isola De Roller.
Damien Chazelle, l’erede del cinema hollywoodiano?
Chazelle si rivela la faccia pulita di una Hollywood che continua per la sua strada, posizionando qua e là personaggi messicano discendenti, afro americani, orientali, ma al tempo stesso dipinge il percorso ascendente dell’uomo che si è fatto da sé (il tuttofare Manny, che riesce a diventare produttore senza mai perdere il garbo e la cavalleria che lo porteranno alla conquista della bella bionda premio) in netta contrapposizione con quello discendente di Nellie, incapace di comportarsi bene, emancipata solo in quanto selvaggia e che alla fine trova la libertà solo nella morte.
“The Great Buster” e il grande Bogdanovich
Data questa premessa, che cosa possiamo trovare nell’osservare il film di Peter Bogdanovich, regista che ha sempre manifestato interesse per la storia del cinema e degli autori (si veda il film Diretto da John Ford e il testo Il cinema secondo Orson Welles) sulla storia di Buster Keaton? Emerge la volontà di Bogdanovich di realizzare un racconto onnicomprensivo, in cui possa trovare spazio tutto: documenti, interviste, materiali d’archivio, biografia, aneddotica, un accenno alle dinamiche dello studio system a cavallo dell’introduzione del sonoro, analisi del film e critica.
“L’immensità” troppo vulnerabile dell’autobiografia
Per quanto poetiche, le immagini di grembiuli lanciati fuori dalle finestre, di pezzi di bambola fluttuanti in una piscinetta gonfiabile o ancora le scenette che riprendono gli spettacoli di varietà degli anni ‘70 non sono affatto originali ne riescono a produrre quel coinvolgimento emotivo per cui sono state ideate. Il risultato è un film di buoni sentimenti, che si gode ma poi si dimentica, forse anche all’ombra di opere autobiografiche italiane più celebri che ancora persistono nell’immaginario e nella discussione cinematografica (come È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino).
“The Kiev Trial” e l’ambivalenza dell’immagine storica
Il film è un collage che riassume i punti salienti di questo processo, nel quale il regista ha scelto cosa mostrare e cosa elidere per permettere a noi spettatori di entrare nella cupa atmosfera del tribunale e sentire le voci di chi ha compiuto e chi ha subito queste ingiustizie. The Kiev Trial è costruito in crescendo, per cui inizialmente si sofferma sui volti, sui nomi, sul lungo lavoro dei traduttori in simultanea che hanno permesso di condurre il processo in russo e tedesco, e poi progressivamente si cede il passo alle testimonianze, che diventano sempre più personali e agghiaccianti, passando da conte sommarie a racconti in prima persona di vittime scampate alle stragi di massa.
“The Humans” dentro il labirinto delle relazioni famigliari
È molto chiaro l’intento programmatico con cui il regista Stephen Karam, già autore e regista dell’omonimo spettacolo teatrale, compone la versione cinematografica di The Humans (distribuito da MUBI). Accanto infatti all’insistito uso dello slit staging, Karam appone numerosi dettagli: alterna primissimi piani a dettagli di oggetti e della casa, chiazze, macchie, rigonfiamenti, con una grande attenzione per le texture e per i contrasti di luce che questi creano. Si vuole convogliare lo sguardo attento dello spettatore a percepire la sensazione tattile data da questi elementi, la loro dimensione multisensoriale.
“Finale a sorpresa” tra il vero e il falso del cinema
I temi dell’inganno, della finzione e dell’identità erano già presenti nei precedenti lavori di Duprat, Il cittadino illustre (2016) e Mi obra maestra (2018) ma qui convergono in una critica divertente e completa al mondo del cinema in tutte le sue forme, dalle sue derive autoriali ed elitarie a quelle che abbracciano i social e la cultura di massa, rappresentandolo come un mondo ridicolo, chiuso tra le quattro mura dello studio di prova dove i personaggi principalmente litigano nella convinzione di star facendo la cosa migliore per se stessi e per il glorioso film.
“C’mon C’mon” tra intelligenza emotiva e ricerca di risposte
C’mon c’mon può essere sinteticamente definito come un film sull’intelligenza emotiva, quella capacità celebrale di elaborare ed esternare le emozioni che è stata lungamente sottovalutata dai genitori nelle generazioni precedenti e che comincia ad essere considerata un pilastro dell’educazione adesso, con l’emersione di sempre maggiori studi sulla psicologia del bambino e anche con uno spostamento di attenzione, che è propria della generazione millennial, dall’obiettivo della realizzazione lavorativa a quello del benessere fisico e psicologico.
“Petrov’s Flu” nella chiarezza del delirio
Il regista dissidente Kirill Serebrennikov ha presentato il suo nuovo film Petrov’s Flu al Festival di Cannes del 2021, senza però poter prendere parte alla kermesse. Su di lui infatti pesa ancora un divieto di lasciare il suolo russo, ed è solo l’ultima delle vessazioni che il regista cinquantenne sta subendo da parte del proprio governo. Sebbene infatti si tratti di uno dei registi cinematografici e teatrali di punta del paese, Serebrennikov negli anni passati è già stato accusato di frode ed incarcerato, subendo un accanimento nei suoi confronti difficile da comprendere se non con le lenti della censura di stato del governo di Putin.
Da Maidan alle bombe. Il cinema che ha raccontato il conflitto in Ucraina
Viaggio attraverso i film dedicati alla realtà ucraina prima dello scoppio della guerra. Questo conflitto non è sorto dalla sera alla mattina, e questa guerra a bassa intensità è stata già vissuta e osservata da tantissime persone nel mondo, tra cui anche una schiera di cineasti che hanno deciso di raccontarne le sfumature e gli effetti. Film visti ai festival – in particolare alla Mostra del Cinema di Venezia – e titoli che non pensavamo sarebbero diventati così attuali. Il cinema fa il suo dovere, diventando strumento di espressione per chi queste storie le vive sulla propria pelle, e il minimo che possiamo fare è non sottrarci alla consapevolezza che queste opere ci portano.
“Piccolo corpo” I – Gesto silenzioso e profondo
Il film è sintetico e silenzioso, aderente ai toni brulli della terra anche nella sua messa in scena, povera di colori e parca di movimenti, ma ricchissima di immagini simboliche. I gesti quotidiani del remare, camminare, bere dalle fonti e sporcarsi il viso di terra per non essere visti dalla montagna nelle cui viscere si vuole passare, sono tutti fondamentali nel procedere della protagonista, nella sua autoconsapevolezza e nella sua espiazione del dolore. Piccolo corpo è un’opera di rara profondità, che passa proprio grazie alla trattazione semplice e priva di orpelli, che ci conduce passo passo accanto al percorso di Agata, il cui desiderio è non solo la liberazione del male dal corpo della piccola, ma il sogno di poterla un domani riabbracciare.
“Tange Sazen and the Pot Worth a Million Ryo” e la scoperta dei capolavori dimenticati
Tange Sazen and the Pot Worth a Million Ryo di Yamanaka Sadao fu realizzato nel 1935 a Kyoto. Del regista, morto ad appena 29 anni, ci sono rimasti solo tre film dei 26 da lui realizzati, tutti afferenti al genere jidai-geki (film in costume, da noi più conosciuti come film di samurai), in cui però possiamo notare l’interesse per la rappresentazione della quotidianità delle persone nel periodo Edo. Sorprende infatti osservare le abitudini di vestizione e pulizia, di intrattenimento nei locali della città, di usi e costumi dell’antichità messi in scena dai guerrieri, rigattieri, donne di casa e imprenditrici presenti tra i protagonisti di Tange Sazen and the Pot Worth a Million Ryo.
“Cry Macho” e Clint Eastwood. Un’eredità cinefila
L’eroe spietato ha ceduto il passo a un anziano dallo sguardo dolce, la cui capacità di conquistare con gli occhi è rimasta intatta. Clint Eastwood continua a conquistare con la sua presenza scenica invidiabile, che non sembra essere consumata dalle decine di ruoli differenti che ha interpretato. Eppure, Cry Macho è un film che esplicitamente tematizza questo cambiamento, il passaggio dal vigore della gioventù alla riflessività della vecchiaia, lesinando sulle scene di azione e sulla consequenzialità della storia per lasciare spazio alla bellezza dei momenti di riposo, di calma, di condivisione della gioia con le altre persone.
“Re granchio” apre nuove direzioni per il cinema italiano
Parlando di questo film si è fatto riferimento al realismo magico così come alla ricostruzione antropologica, ma forse dovremmo spingerci ancora oltre perché questi film usano un contesto storico, più o meno aderente al vero, nel tentativo di immergerci in una riflessione filosofica, in una astrazione che ci riporti all’essenza dell’umano attraverso personaggi in cui possiamo riconoscerci, di cui possiamo ridere e soffrire prendendone le vicende come moderni racconti epici. In questa prospettiva anche Jauja di Lisandro Alonso (2014), Aferim! di Radu Jude (2015), A Lullaby to the Sorrowful Mistery di Lav Diaz, (2016), Monte di Amir Naderi (2016), Zama di Lucrecia Martel (2017), rispondono alle sensibilità dei singoli registi e non rientrano semplicemente nelle categorie del film storico.
“Trafficante di virus” e il film d’inchiesta mainstream
Il film prende le parti della dottoressa Capua, ma senza appiattirla sull’idea della martire immolata per la patria, anzi. Con coerenza e destrezza, Costanza Quatriglio ritaglia i giusti spazi del racconto per descriverci i suoi difetti, l’intemperanza, il desiderio di potere, la caparbietà nelle azioni e nel linguaggio che rendono umana una figura schiacciata nelle le pagine dei quotidiani tra successi della ricerca e violente accuse. Ed emerge il percorso di questa donna, come negli anni impara ad accettare il proprio atteggiamento, ad ascoltarsi, a trasferire gli insegnamenti che apprende nel lavoro nel campo della sua vita privata, e viceversa.
La parte inconscia dello spettatore e del cinema. Il “Mulholland Drive” del linguaggio
Probabilmente parte del fascino magnetico di questo film risiede proprio nella sua capacità di entrare in contatto con la parte più inconscia del nostro essere spettatore, spiazzandoci e al tempo stesso facendoci sentire intimamente compresi, anche grazie all’indulgenza, in numerosi momenti del film, alla suspense e alla tensione erotica, elementi che compiacciono e attivano lo sguardo dello spettatore. Un gioco tra attrazione e spavento gestito con mirabile equilibrio, resa immortale e rilevante per la storia del cinema anche in virtù dell’intima riflessione che compie sul media e sull’industria del cinema.