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“La natura dell’amore” e l’oggetto del desiderio
Non ci saranno risposte univoche o soluzioni giuste, ma è come se non ce ne fosse bisogno: l’obiettivo di Monia Chokri è “appesantire” l’amore con i contesti in modo tale da renderlo affascinante da seguire. A questo contribuiscono le scelte registiche, i dialoghi divertenti e accurati, e una garbata stilettata a chi ha notato in sé una nota di snobismo: gli alti standard morali non valgono nulla senza l’empatia per le persone di altri mondi.
Potere e follia. Ancora su “Rossosperanza”
In un mondo tendente all’uguaglianza asettica e pronto ad abbracciare il nuovo millennio, la speranza di Annarita Zambrano è forse quella di far vincere per una volta quello che abbiamo rimosso o confinato in edifici facilmente identificabili con Villa Bianca, luoghi in cui si è cercato di perseguire l’eliminazione riscontrata da Basaglia. Soffocare conduce alla morte, è risaputo, ma che bello sapere che sullo schermo si può allentare la morsa violenta e lasciare che i corpi degli oppressi reagiscano non soltanto narrativamente ma anche con il sangue.
“Gigi la legge” II. La leggerezza dell’osmosi
La leggerezza del girovagare in questo tempo sospeso ma reale rivela molto più di quello che fa concretamente vedere. Si perdono i personaggi, si allentano i confini della finzione e avviene un’osmosi tra cinema e realtà che con il passare dei minuti ipnotizza lo sguardo di chi ha bisogno di arrivare necessariamente ad una fine. Gigi la Legge termina soltanto per cause di forza maggiore, perché un Gigi continuerà a pattugliare la sua area di competenza anche laddove sembra non essercene alcun bisogno.
“La stranezza” e le zone d’ombra pirandelliane
Il regista siciliano deve aver intuito che il compito del cinema non è soltanto ricostruzione filologica o calco esatto di oggetti ben definito, ma anche evocazione, atmosfera e bugie a fin di bene. La stranezza è il filler di una zona d’ombra che fa dello spirito il suo obiettivo, liberandosi della pesantezza e degli ostacoli dell’adattamento. Non c’è arma migliore del tradimento per ottenere un risultato un risultato fedele all’originale. La narrazione si concentra sulla commistione di arte e vita, una cifra centrale nella produzione di Pirandello.
“L’ultimo spettacolo”, un turbinio di anime tra passato e futuro
Che vento forte soffia ad Anarene. Proviene dal passato, si rinforza nelle vuote vastità del Texas e tira dritto verso un futuro da scrivere con estrema difficoltà. Sta sicuramente soffiando anche in questo momento e continuerà a farlo senza che nessuno possa del tutto sfuggirgli. I personaggi del film di Bogdanovich trovano riparo in piccoli avamposti per arginarne l’impeto, ma si finisce per imparare molto presto che il vento fa il suo giro e ritorna sempre sui suoi passi. Nel turbinio, c’è chi prova a diventare grande e chi combatte l’avanzata incessante del tempo. Con una meticolosa fotografia in bianco e nero, un’influente colonna sonora dalle tinte country e western e una recitazione d’insieme piacevolmente uniforme, L’ultimo spettacolo è allo stesso tempo un’elegia per il passato e un monito per l’avvenire.
“La regola del gioco” e la necessità di organizzare l’improvvisazione
Servono poco più di 20 minuti a Jean Renoir per rivelare La regola del gioco: ognuno ha le proprie ragioni. Sedersi al tavolo senza essere adeguatamente preparati o accettarne i meccanismi può risultare fatale, un po’ come accaduto al pubblico che ebbe la (s)fortuna di guardarlo nelle sale nel 1939. Su trentasette recensioni contemporanee all’uscita, quattordici erano ostili, sei ambivalenti, sei favorevoli con riserve e cinque quasi del tutto favorevoli. Messi di fronte ad una verità demistificata, talmente candida da essere bruciante, i critici e gli spettatori non accettarono di vedere il mondo a cui avevano tacitamente aderito privato di una incosciente edulcorazione.
“Jacques Tati, Tombé de la lune” e la ricerca della perfezione
Non è tanto il talento, quanto l’ossessione a distinguere i grandi dai grandissimi. C’è una filmografia in continuo divenire pronta per sostenere questa affermazione, e il documentario di Jean-Baptiste Péretié ci si iscrive a pieno a titolo. Il genio di Jacques Tati risulta talmente abbagliante da renderlo difficile da raccontare, ed è per questo che il regista francese lo libera attraverso le immagini del suo cinema relegando la storia a commento interpretativo.
“Mother Lode” nel paradiso del diavolo
È un bianco e nero con delle sfumature originali che rendono Mother Lode un prodotto audiovisivo osmotico. La finzione costruita è talmente ingenua, talmente folcloristica, da diluirsi con estrema naturalezza in una dimensione intima fatta di spazi interstiziali dell’anima. Ha senso chiedersi se un racconto di questo tipo precluda una caratteristica centrale della realtà oggettiva? Sembra invece che il lavoro sulla fotografia aggiunga, oltre alla garanzia di veridicità, anche un portato significativo di mistero come qualità decisiva dell’esperienza umana.
“Storia di mia moglie” e la fiammella della trasposizione
Ildikó Enyedi ha fatto una scommessa. Abbandonare la sceneggiatura per confrontarsi con un adattamento di un romanzo, nello specifico La storia di mia moglie di Milán Füst, e battere una nuova strada nel suo cinema. Un’inezia in confronto a quella che il capitano olandese Jakob Störr (Gijs Naber) fa con il destino, decidendo di sposare una donna sconosciuta incontrata in un ristorante stuzzicato da un infingardo Sergio Rubini. Non è un’esagerazione narrativa, ma la premessa ideale per un viaggio nei territori misteriosi della psicologia umana.
“Lunana” alla scoperta di un mondo
L’uomo usciva dalla caverna di Platone rimanendo abbacinato dalla bellezza di un mondo di cui aveva ignorato l’esistenza. Ugyen, il protagonista di Lunana – Il villaggio ai confini del mondo, è un insegnante insoddisfatto che viene assegnato alla scuola più remota del Bhutan per apprezzare la sua posizione lavorativa statale. Il debutto di Pawo Choyning Dorji riesce a giocare senza sforzo con gli aspetti universali della vita incorporandoli in un viaggio alla scoperta di un territorio e di una cultura esclusa dai circuiti tradizionali. La decisione di girare sul posto usando batterie a energia solare e di impiegare gli abitanti del villaggio come attori dà al film un rinfrescante senso di autenticità.
“Cow” dentro lo schema di dominazione
L’occhio di Andrea Arnold si perde continuamente nella pupilla di Luma, rivelando per inerzia una dimensione segreta che è stata segregata dal sentire comune. Uno sguardo così ravvicinato genera uno strano effetto Kulešov che mette al centro l’animale e si prolunga in un contesto di coazione a produrre sequenza dopo sequenza. Luma è l’enigmatica vittima di una natura artificiale che trasmette una gamma emozionale che oscilla tra le diverse sfumature della tristezza, con rare incursioni in altri territori (in un contesto così l’accoppiamento di Luma con un toro sulle note di Mad Love è un contrappunto per certi versi rinfrancante).
“Flee” tra animazione, documentario e memoria del trauma
Disegnando le scene dalla prospettiva di un’immaginaria telecamera live-action, il film segue molte convenzioni visive della forma documentario, puntellando la narrazione con canonici filmati d’archivio. Questo fornisce il contesto storico e, combinato con l’animazione realistica, colloca la storia personale di Amin all’interno delle realtà sociali e storiche condivise da molti richiedenti asilo in fuga dall’Afghanistan alla fine degli anni ’80. Sfruttando il filtro delicato dell’animazione, Flee presenta una storia commovente di un uomo a cui viene data un’altra possibilità di vivere, amare e prosperare e il tremendo prezzo pagato in anticipo per ottenerla.