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“L’età dell’innocenza” 30 anni dopo
Una delle anime più strazianti del cinema di Scorsese è il dannato romanticismo che sorprende nella trappola dell’amore i protagonisti, talmente avvinti dai sentimenti da non accorgersi della propria incredibile ingenuità. A differenza, infatti, di New York New York o Toro scatenato, in L’età dell’innocenza il love affair è raccontato con i codici di Quei bravi ragazzi: un approccio che sottolinea la tossicità di una società tribale, fiera della sua falsa verginità al punto di pretendere che Newland annulli le proprie passioni pur di garantire la sopravvivenza della casta di cui l’uomo è rampollo designato al futuro trono.
La calata negli abissi della nazione. “Esterno notte – parte I” scomodo, spiazzante, travolgente
I primi tre episodi di Esterno notte sono il controcampo di Buongiorno, notte, con l’incipit utopico che vede il prigioniero liberato che dialoga con il finale nel suo capolavoro di quasi vent’anni fa. Stavolta Aldo Moro lo conosciamo libero, consapevole della gravità del presente, convinto di dover perseguire un obiettivo collettivo che è anche un capolavoro personale. “Ho parlato per un’ora e dieci minuti senza mai nominare la parola comunismo” dice, con una certa soddisfazione, dopo aver persuaso le varie correnti democristiane a sostenere il governo sostenuto esternamente dei comunisti.
In ricordo di Lina Wertmüller. Il cinema, l’Oscar e lo statuto dell’Autore
Cerchiamo di fare ordine, oggi che Lina non c’è più. L’Academy la celebrò nel 2019 per l’incidenza culturale di quattro film realizzati tra il 1972 e il 1975, tuttora molto amati: Mimì metallurgico ferito nell’onore, Film d’amore e d’anarchia, Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto e Pasqualino Settebellezze. A Wertmüller fu riconosciuto quello statuto d’autore negatole in Italia solo quando la critica americana si innamorò del suo talento iconoclasta e dello spirito selvaggio con cui raccontava i conflitti sociali, i turbinii sentimentali, il sesso, la politica, il passato oscuro della nazione. E certo all’epoca destava stupore che a realizzare questi film fosse una donna.
“È stata la mano di Dio” e il cinema come seduta spiritica
È stata la mano di Dio è la dichiarazione di fiducia più commovente sul potere del cinema come seduta spiritica e magica illusione, luogo delle ombre che si rifanno materia. D’altronde, se non è “solo un trucco” come le giraffe, potrebbe essere tutto un gioco, dagli scherzi telefonici alle arance in aria fino al mascheramento dell’orso, con la voce di Fellini a regolare il battito di un cuore squarciato dalle parole furibonde di un altro maestro, Antonio Capuano, che sul ciglio del mare che bagna Napoli mette in guardia sulla trappola della speranza.
Corpo contundente, anima infiammabile. Un ricordo di Mariangela Melato
Mariangela Melato è stata un’interprete spiazzante e spericolata: dea d’una vulnerabilità ancestrale e al contempo maschera della modernità, corpo contestatario e spirito che affonda le radici nella tragedia greca, affabulatrice indefessa e trasformista. Milanese di ringhiera con tutto ciò che ne consegue nel modulare un pratico disincanto all’altezza dell’incanto surreale, danzatrice per studio e poi passione riemergente con tutto ciò che ne consegue nell’attitudine a dare tridimensionalità coreografica ai personaggi, teatrante di scuola ronconiana con tutto ciò che ne consegue nella reinvenzione di un vocabolario che si incarna nella voce e nell’atto che si fa parola, Melato ha rivoluzionato il cinema italiano dando vita a un tipo di donna che, sic et simpliciter, prima di lei non esisteva.
“Marx può aspettare” e la nuda inquietudine di Marco Bellocchio
Più che un’indagine sui motivi di un gesto inaudito, questo film sembra quasi essere una riflessione sull’inevitabilità del gesto stesso, su una disperazione maturata in un contesto che non avrebbe potuto determinare altro che non fosse radicata infelicità, su un atto estremo che ognuno ha letto secondo i rispettivi bisogni. Con una naturalezza che ci appare sconvolgente, Marx può aspettare non è un film testamentario, malgrado l’anagrafe e il tema: il tono non è mai compiaciuto del dolore, lo slancio verso il futuro è un’attitudine spirituale, la terapia pubblica è un MacGuffin per far emergere l’impossibilità della cura.
Stefania Sandrelli e l’idea dell’amore
È difficile non associare Sandrelli all’idea dell’amore perché in lei convivono la grande storia di un’intera nazione – della Repubblica, meglio, nata pochi giorni prima di lei – dominata dal desiderio di scoprirsi adulta e quella piccola nascosta nell’appartamento accanto tra i cimeli di famiglia e i simulacri di un ceto fluido, il racconto collettivo di una ragazza che il tempo non può scalfire e l’epopea del tempo stesso – il tempo della storia, della nostra storia – che l’attraversa lasciando tracce che sono segni di una rivoluzione culturale. In lei – e nei suoi occhi che si tuffano dal balcone, nella sua risata sempre accordata sullo stupore – c’è quel furore pacato di certi personaggi tipicamente italiani che nell’intemperanza emotiva declinano sogni e bisogni.
La comicità e la fame. 100 anni di Nino Manfredi
C’è qualcosa che rende Nino Manfredi davvero unico nel novero degli interpreti della sua generazione: Manfredi ha fame. Anche quando lo troviamo borghese appagato, percepiamo sempre il bisogno fisiologico di mangiare, lo spettro della denutrizione, la forza d’animo di chi ha fatto della rinuncia un mezzo per emanciparsi. È una caratteristica che lo colloca in continuità con Totò ed Eduardo vedeva in lui una sorta di erede ideale. E crediamo assolutamente alla sua identificazione con il poverissimo, umanissimo Geppetto in quello che a tutt’oggi resta il più bello degli adattamenti de Le avventure di Pinocchio e, in parallelo, alla precisione con cui calibra l’iperrealismo nei panni del terribile, dispotico borgataro di Brutti, sporchi e cattivi: due morti di fame, sì, ma opposti.
“Lei mi parla ancora” e la storia dell’amore
Lei mi parla ancora è una struggente storia di fantasmi e come tutte le storie di fantasmi è una storia d’amore. Di più: l’ambizione di Avati è quella di trattarla come la storia dell’amore più che di un amore, dove l’anima persa rimasta sulla terra combatte strenuamente per continuare a convivere con chi non c’è più. L’amore che rende immortali. È incredibile la naturalezza mai artefatta, debitrice alle suggestioni della pagina scritta ma risultato di una forte padronanza del dramma, con cui Avati costruisce un tempo che non esiste, dove convivono il qui e l’aldilà, la vita e la morte, i corpi e i fantasmi. Con un valore aggiunto, che si chiama Renato Pozzetto. Forse il ragazzo d’oro che aspettava da sempre.
Cinque anni senza Ettore Scola. La possibilità di un classico
Passano gli anni (cinque dalla morte) e quella di Scola è sempre più una voce nitida. Un autore che riesce, a tratti sorprendentemente, a rinsaldare il patto con il pubblico, intercettare nuove generazioni, imprimersi nella memoria degli spettatori. E questo perché tra tutti i maestri della commedia all’italiana è stato il più acuto e attento a raccontare la complessità del carattere nazionale, tant’è che molti suoi film possono costituire una sorta di sussidiario illustrato della storia italiana. Se Mario Monicelli ha raccontato l’epica dei cialtroni e i roboanti fallimenti di grandi imprese e Dino Risi è stato cinico anatomopatologo di amabili vigliacchi pieni di contraddizioni, Scola ha esplorato come pochi il contesto socio-culturale.
Uno così non muore mai. Ritratto di Gigi Proietti
Le lacrime scendono per Gigi Proietti. Ma che bravi recentemente Alessandro Gassmann e Matteo Garrone a recuperarlo ormai anziano in ruoli inattesi: lo scrittore da Nobel de Il premio è il trionfo della misura attraverso un cripto-omaggio a Vittorio; e come Mangiafuoco in Pinocchio incarna il teatro stesso, celebrazione di un artista che con la sua Bottega ha formato attori oggi popolarissimi. Lo vedremo prossimamente Babbo Natale, pronto a darci l’ultimo regalo, ma nel frattempo ci piace pensarlo ancora Cavaradossi, amante della Tosca chiuso a Castel Sant’Angelo, nella notte che precede la condanna al patibolo, mentre canta in duetto con la città che oggi lo piange e insieme ride: “nun je da’ retta Roma”, che tanto uno così non muore mai.
“Gli infedeli” e il maschio italiano senza perfidia
Tre modi per leggere Gli infedeli. Il primo è noioso: il senso dell’operazione è del tutto interno alla logica di un servizio (Netflix) che per il suo catalogo di film originali – al di là dei tre o quattro omaggi annuali al cinema come Dio comanda, diciamo da Scorsese in giù – ragiona per modelli e schemi da usato sicuro. Il secondo è autoreferenziale: il film di Stefano Mordini rinnova – o rinnoverebbe – la tradizione della commedia all’italiana raccontando la realtà contemporanea secondo quella lente deformata e deformante tipica dei maestri del genere. Il terzo è pretenzioso: ma no, ragazzi, non è una commedia, è un dramma che osserva la tragedia del maschio contemporaneo. Nessuno ha la verità in mano, figuriamoci quando parliamo di film.
Conosciamo davvero Alberto Sordi?
Siamo tutti convinti di conoscere Alberto Sordi, non fosse altro per la determinante incidenza sull’immaginario collettivo, per la frequenza con cui rivediamo i suoi film, per l’affetto di alcuni estimatori rassicurati dallo specchio deformato pari solo al disprezzo di altri modellato sulla superficie della filippica di Nanni Moretti. E tuttavia tendiamo sempre a ricordarlo quasi solo per il ritratto dell’italiano medio, certo la sua operazione più importante specialmente nell’ambito della nostra stagione di massima gloria. A cent’anni dalla nascita la retorica rincorre il ricordo, immemore dello spirito di Rodolfo Sonego (il “cervello” di Sordi), e la pigrizia dell’omaggio, come sempre modulato sulle marcette di Piero Piccioni (il “corpo” di Sordi), si accompagna al burocratico disbrigo della celebrazione fine a se stesso.
Gli 80 anni di Mina e tutto il desiderio del cinema
Se la sua presenza – corpo, mani, capelli voce – è stata esaltata dall’intelligenza di un regista televisivo geniale come Antonello Falqui, che ha saputo incastonarla nella memoria e nell’immaginario (provate a rivedere le sue esibizioni di Studio Uno o Teatro 10: sostanzialmente dei capolavori), verrebbe da dire che il cinema ha contribuito non poco a mitizzare una figura già di per sé titanica. Madrina queer, suono di un’epoca, dea immortale, la neo-ottantenne Mina riempie il cinema da sessant’anni. Per quanto il suo più grande film sia quello non fatto. E non è Il padrino (sì, Francis Ford Coppola propose anche a lei il ruolo poi andato a Diane Keaton). Federico Fellini, suo grande ammiratore, la voleva, infatti, nel cast del mitologico Viaggio di G. Mastorna.
Metti un pomeriggio con Terrence Malick
Cosa fare quando incontri qualcuno che stimi e apprezzi ma non è un tuo idolo? Subentra, a quel punto, il più grande dei doni: la curiosità. Quando mi sono trovato di fronte Terrence Malick, un po’ per caso e un po’ per scelta, ho sentito una vibrazione. Ma l’abbiamo sentita tutti, è chiaro, tutti quei pochi che in un altrimenti pigro pomeriggio di inizio dicembre finimmo in una sala abbastanza inaccessibile. Più dell’attesa, la curiosità: c’è o non c’è? Forse c’è. C’è sicuramente il film, Hidden Life . Il film è tra i migliori del suo ultimo periodo.. Pur irrisolto, faticoso, altalenante nella narrazione, qua e là troppo epidermico nel passare dall’idillio agreste alla tragedia umana, è un’interessante testimonianza della devozione del regista nei confronti di un mondo cinematografico che si muove tra il Rossellini didattico e il rigore di Bresson.
“1917” e il virtuosismo tracotante
Nel tronfio trionfo di un virtuosismo utile a scaldare i cuori dei critici americani, Mendes salta dall’iperrealismo en plein air della prima parte al finale in trincea passando attraverso un fiume travolgente e soprattutto l’esplorazione notturna della fiammeggiante città in rovina. Qui l’impressione iniziale è che si occhieggi a uno straniamento di matrice teatrale, sostenuta proprio dall’origine artistica del regista. Poi, in un attimo, ci si sente calati dentro una versione estetizzante e più tracotante di Call of Duty o Battlefield 1 che con retorica magniloquenza maschera l’ipocrisia del manicheismo patriottardo. Alla fine i bravi soldati inglesi si stringono la mano e non piangono perché, insomma, sono uomini duri, ma come faccia un foglio di carta scritto con l’inchiostro di un secolo fa a resistere in acqua resta un mistero.
Cent’anni e un attimo. Fellini 100
Cent’anni e un attimo: Fellini ieri come oggi e così anche domani sarà faro, guida, maestro di generazioni infinite. Uno che ha dato il nome a cose che prima cercavano solo una definizione. È l’8 ½ di un autore, è l’Amarcord della nostra vita, è la Dolce vita del nostro tempo. Più si scandaglia l’opera dell’uomo che ha dato un nome alle cose, più ci si convince di quanto sia irrinunciabile. Per celebrarlo nell’appuntamento del centenario, proviamo a risondare le cose meno esposte di una carriera illuminata di grazia. E quindi, al di là delle pietre miliari, riprendiamo Roma, rapporto confidenziale e capolavoro nero, riprendiamo lo sbalestrato e inafferrabile Toby Dammit, riprendiamo Prova d’orchestra per filtrare nella parentesi allegorica il decennio più cupo…
Venerati maestri del cinema contemporaneo
A chiusura del 2019, approfondiamo il tema dei “venerati autori”. I grandi cineasti della vecchiaia. In fondo è stato comunque l’anno dei maestri, aperto dalla lectio magistralis più anarchica: quella di Clint Eastwood (quasi novant’anni, ma chi ci crede?), il corriere che continua a dirci che non esiste un mondo perfetto. Ciclicamente promette che non tornerà di nuovo in gioco: e quando pensi che sia l’ultima volta, sfoderi la retorica del testamento, ti consoli nel ritrovarlo dietro la macchina da presa… ecco che ritorna. E poi Allen, Avati, Bellocchio, Leigh, Polanski, Scorsese, e altri.
“Pinocchio” di Matteo Garrone e le maschere dell’ossessione
Per Matteo Garrone, l’appuntamento era inevitabile: Pinocchio è un’ossessione infantile, naturale chiave di lettura per capire un’intera filmografia, tappa di approdo e ripartenza di un autore arrivato qui al termine del decennio in cui ha esplorato, setacciato, ripensato il versante nero della favola (Reality, Il racconto dei racconti, Dogman). Pinocchio è fatto della materia di cui sono fatti i sogni oscuri di Garrone, dal borgo di Geppetto che richiama la desolazione materica dell’orizzonte esistenziale del Canaro all’allegoria da reality della crudeltà contenuta nel perimetro pedofilo del Paese dei Balocchi.
La recherche impossibile di Elia Suleiman
Quasi seguendo l’ipotesi di una cover di Playtime, Suleiman esplora luoghi che costituiscono gli spazi di una città non-ideale, dove i poliziotti prendono le misure dei dehors, personale sanitario serve pasti a clochard senza prestare attenzione al fattore umano e il capitale vorrebbe plasmare l’artista al canone dominante. L’ossessione del controllo, la fiducia nella paura, il bisogno di addomesticare il perturbante. In fondo, le sortite di Suleiman rappresentano l’occasione di rimettere in discussione le nostre convinzioni su pezzi di mondo periferico che tendiamo a “ridurre” alle notizie filtrate dalla stampa o da una sommaria quanto superficiale conoscenza della geopolitica. Come se, al di là del film, Suleiman ci stesse aprendo gli occhi sulla nostra visione parziale della Palestina, con la natia Nazareth quale epicentro di una recherche impossibile.