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Musica e suono in “M*A*S*H” di Robert Altman
L’antinomia tra le immagini degli elicotteri che trasportano corpi di soldati feriti e martoriati verso l’ospedale da campo e le note delicate e dolci della bellissima Suicide Is Painless annunciano già dalla prima scena una delle principali caratteristiche del film di Robert Altman: il contrasto apparente tra leggerezza e tragedia, divertimento e morte, risate e guerra, scherzi e sangue, tutti elementi che in realtà convivono necessariamente e molto umanamente in situazioni estreme da esorcizzare con uno sberleffo.
Il curioso caso di Leonard Zelig
Zelig, come il suo protagonista, è tante cose insieme. Innanzitutto è una divertentissima commedia, con alcune geniali battute fulminanti e con un effetto comico che nasce dal contrasto tra contenuti demenziali e l’estrema serietà formale. Poi è una celebrazione amara di un periodo fervido e vitale che, come l’orchestra del Titanic, festeggiava la vita andando inconsapevolmente incontro alla morte, sulla soglia dell’orrore della Seconda Guerra Mondiale. F. Scott Fitzgerald e il Tip Tap, l’affermarsi della psicanalisi e Charlie Chaplin, la nascita della società di massa e Babe Ruth, il nazismo e Josephine Baker: lo zenit ed il nadir della civiltà umana racchiuso in pochi anni.
Jack ti presento Shirley
È inarrivabile la capacità di Wilder di intrecciare dramma e leggerezza, amarezza e divertimento, di essere insieme popolare e sofisticato, con il calore e l’empatia di un film di Frank Capra ma con uno sguardo lucido e spietato sulla condizione umana e sulla modernità. Nel personaggio di Lemmon infatti, sotto ad una patina di simpatia e bonarietà, si legge chiaramente in controluce la feroce critica del regista alla società americana del tempo: un mondo dominato dalla sfrenata ambizione, dall’individualismo e dai compromessi, tra Kafka e Fantozzi. Pur con la scrittura brillantemente euclidea di Wilder e I. A. L. Diamond, le stupende interpretazioni degli attori, l’abbacinante bianco e nero di Joseph LaShelle, quel meccanismo perfetto che è L’appartamento non funzionerebbe senza l’incantevole colonna sonora di Adolph Deutsch
“Morte a Venezia” e la musica
In tutto il film la musica ed i suoni cesellano il senso narrativo e la sfaccettata figura del protagonista: dalle sirene della nave nella sequenza iniziale dell’arrivo a Venezia, che, strappando la quieta tela sonora di Mahler, instillano, con l’ausilio di improvvisi zoom su Bogarde, una opprimente sensazione di disagio, a Per Elisa di Beethoven che, suonata al pianoforte da Tadzio e poi da una prostituta, evidenzia come Gustav cerchi nella seconda un surrogato del giovane amato. E ancora Chi vuole con le donne aver fortuna di Armando Gil, cantata da una grottesca banda musicale nella veranda del Grand Hotel, che suggerisce il lato ridicolo del protagonista, anticipando la maschera patetica in cui si sta per trasformare. È inoltre splendido il modo in cui Visconti riesce, con i suoni, le voci che si accavallano, le diverse lingue, i silenzi ed i rumori di fondo, a raccontare la vita che scorre intorno a Gustav.
“1997: Fuga da New York” o dell’essenzialità
Uno degli elementi più significativi del film è sicuramente l’assoluta simbiosi tra il film e la sua splendida colonna sonora, composta dallo stesso Carpenter (con la collaborazione di Alan Howarth), nel dare vita a quella che si potrebbe definire un’opera minimalista: poca trama, pochi dialoghi, pochissima psicologia, pochissimi strumenti musicali (principalmente sintetizzatore e tastiera), poche note (e, non per scelta artistica, pochi soldi). La musica di Carpenter è, come il film, essenziale, semplice, serrata e adrenalinica. Rumore di elicotteri, ossessive note basse ripetute, cupe note fisse su cui si innestano brevissime melodie suggestive (che rimanda a certe frasi musicali scritte da Vangelis per Blade Runner), improvvisi passaggi ritmici di batteria elettronica: tutto il sonoro contribuisce a creare un’atmosfera ansiogena e angosciante.
“Tonya” e il lirismo grottesco
Sostenuto da ottime prove degli attori (in particolare una Margot Robbie imbruttita nella parte della protagonista e Allison Janney, che per il ruolo dell’orribile, seppur sinistramente divertente, madre ha conquistato un oscar), Tonya incrocia diversi generi, saltando tra il mockumentary, il drammatico e la commedia, per poi nella seconda parte virare decisamente verso il grottesco, tanto da ricordare per certi versi Fargo dei fratelli Coen (freddi sobborghi e criminali talmente stupidi da diventare comici), con la differenza che qui i fatti esposti sono veramente accaduti. È più che apprezzabile poi il fatto che il film non cada nella trappola tipica di molti biopic, ovvero fare un ritratto troppo indulgente della protagonista. Tonya è rozza, volgare e spesso sgradevole. È sicuramente una vittima della madre e del marito, ma lo è anche di se stessa, della sua superficialità e delle sue scelte sbagliate.
“Boogie Nights”, quando tutto scompare
C’è qualcosa di epico nel cinema di P. T. Anderson, quella straordinaria capacità che è solo dei grandissimi di creare immagini così potenti da diventare indelebili, grazie ad una straordinaria capacità nel governare la macchina da presa e gli attori, nonché ad un mirabile uso della musica. Così momenti di cinema sublime nascono anche dalla forza della componente sonora: che sia il vorticoso soul jazz di Compared to What di Roberta Flack, mentre si infrangono sogni e si cerca di sniffare via il dolore, o i rintocchi ossessivi che scandiscono in musica un crescendo di tensione, fino a che omofobia e frustrazione deflagrano in violenza, oppure il pop leggero tipicamente anni ottanta di Jessie’s Girl di Rick Springfield, che esalta per antinomia il senso di delirio e paura in un’allucinante tentativo di rapina, tra droga, fucili a canne mozze e petardi lanciati in una stanza.
Cinema Ritrovato 2017: le partiture dissonanti di Dario Argento
Pur tenendosi lontano da qualsiasi riferimento politico e sociale, L’uccello dalle piume di cristallo (uscito nelle sale nel febbraio del 1970, due mesi dopo la strage di Piazza Fontana) può essere considerato un film emblematico di un profondo cambiamento nella società italiana: la luce, la leggerezza e l’ottimismo degli anni Sessanta lasciano definitivamente spazio ad un nuovo decennio cupo, pesante e violento.
New York Stories: “New York, New York”
Nella lunga trattazione su New York e il cinema che abbiamo proposto ai nostri lettori, appoggiandoci alla retrospettiva in corso, tocca oggi al film eponimo di Martin Scorsese. Dl resto non potevamo che chiudere con il regista più legato (insieme a Woody Allen) alla Grande Mela.
Rapsodia in bianco e nero: la musica sinuosa di “Manhattan”
Se, come il protagonista in una delle scene più famose del film, ci si mettesse sdraiati sul divano ad elencare le cose per cui vale la pena vivere, Manhattan potrebbe legittimamente rientrare, come tutto il grandissimo cinema, nella lista.
“Aquarius”: la voce della memoria
Clara, critico musicale in pensione, abita da sola di fronte al mare di Recife nell’appartamento di famiglia, in un condominio (l’Aquarius), un tempo ricco palazzo dell’alta borghesia, da cui negli ultimi anni se ne sono andati tutti, vendendo ad una società immobiliare che vuole abbatterlo per costruirne uno nuovo. Trascorre la sua vita nuotando, ascoltando musica, andando a trovare i figli ed il fratello, uscendo con le amiche e cercando amore dove può, mentre la pressione da parte della società immobiliare per farle vendere il suo appartamento diventa sempre più insopportabile, inducendola a reagire.