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“Giurato numero 2” speciale II – Lo sguardo sulla soglia
Con la semplicità di una messa in scena rigorosa e asciutta, dove ogni inquadratura e ogni dialogo sembrano essere nati esattamente per occupare quel posto, Clint ci chiama all’azione, ci vuole attenti, pronti a dubitare, ci vuole sull’aereo con Sully, sul quel treno alle 15:17, ci vuole in carcere con Mandela o al fianco di Maggie fino alla fine, vuole che restiamo sia in macchina con Dave ma anche fuori, in definitiva ci vuole davanti a quel portone, sulla soglia di uno sguardo che assume su di sé le sorti di una morale possibile.
Saper vedere oltre. “Trap” e il cinema elusivo di Shyamalan
Trappole, segni, storie dentro ad altre storie, protagonisti dichiarati e nascosti, in una poetica che mette insieme uno sguardo lucidissimo sul mondo che ci circonda e un lavoro di costante rimaneggiamento di codici e meccanismi di funzionamento dei generi cinematografici. Il cacciato diventerà cacciatore, ridiventerà cacciato per poi nuovamente cacciare, in un susseguirsi di ribaltamenti di fronte che sono lo specchio rotto di una realtà troppo complessa per essere rinchiusa, incasellata (intrappolata?) in ruoli codificati.
“Perfect Days” e la difficile arte della semplicità
Si resta come frastornati dalla ricchezza umana di questo protagonista e dalla capacità di Wenders di far accadere le cose, senza forzature, con una discrezione anche stilistica centratissima e decisiva, totalmente al servizio di un pedinamento umano ed esistenziale. Di più, forse. Wenders mette in scena il suo amore per il cinema. Filma la sua urgenza di filmare ma senza peso, senza mostrarla, senza mostrarsi, al servizio di una visione, restando nell’ombra.
“Il sol dell’avvenire” speciale I – Una dichiarazione d’amore
Si riannodano i fili di un percorso cinematografico che dura da cinquant’anni, fatto di idiosincrasie, fissazioni, facce stupite e recitazioni stranianti, viaggi, diari e giornali, canzoni italiane ascoltate, ballate e ostinatamente cantate, di impegno politico dentro e fuori dal set, di film girati o desiderati, di lettere mai spedite e pasticceri trozkisti, di madri reali, immaginate, evocate o sublimate, di attori che sono il corpo e la sostanza stessa di un percorso poetico, in quella che è la più struggente e radicale dichiarazione d’amore verso il cinema che Moretti abbia mai messo in scena.
Il ritorno delle fate ignoranti. Ozpetek seriale
Per Ferzan Ozpetek il progetto di questa serie TV si configura subito come una grande occasione per entrare nuovamente nelle sue storie, nei suoi personaggi, nel suo mondo poetico e umano e sviscerarne nuovi aspetti, approfondire, allargare confini narrativi e geografici, chiamare in causa nuovi e vecchi amici di cinema, frammentare prismaticamente la sua voce di autore, dentro a una moltitudine di micro storie e di vicende umane. Una frammentazione che in realtà consente in modo ancora più forte di ricomporre quella idea di mondo (e di cinema) che il regista va tracciando con sempre maggiore chiarezza film dopo film.
“Tre Piani” di Nanni Moretti – Speciale parte I. La stanza del padre
Con Tre piani siamo di fronte anche a un ulteriore passo avanti di Moretti nella sua indagine psicoanalitica dei rapporti umani, fin qui mai così teorica. Che il suo cinema giochi da sempre un corpo a corpo piuttosto serrato con la psicoanalisi non è certamente un novità, che questa indagine venga estrinsecata teatralmente in un lavoro di scarnificazione della drammaturgia, lavorando per sottrazione sulle sovrastrutture della recitazione, ragionando a fondo sul complesso rapporto fra personaggio e identità, è invece un percorso critico sul suo cinema ancora molto aperto, su cui ancora tanto ci sarà da lavorare e approfondire.
La terra dell’abbandono. “La cordigliera dei sogni” di Patricio Guzmán
In questo bellissimo film a dominare il racconto è la cordigliera delle Ande e la sua imponente e labirintica struttura. Un territorio quasi abbandonato quello attorno alla cordigliera che in un certo senso racchiude in se la storia del Cile e in qualche modo anche la sua memoria. Una barriera che contemporaneamente protegge e isola, difende e allontana. Così, attraverso un procedimento caro alla geometria frattale già usato negli altri due documentari, la cinepresa si avvicina sempre di più alle montagne, alla loro superficie, alle spaccature delle rocce e improvvisamente quasi non sappiamo più se ci troviamo nel regno del piccolissimo o se non stiamo invece osservando dall’alto l’intera cordigliera, e la sua multiforme e sfaccettata andatura montuosa.
Speciale “Rifkin’s Festival” – L’arte della variazione
Siamo davanti a un film che scorre via con una levità sorprendente, nel quale Allen si diverte a rimettere in scena i film che più ha amato, trasformandoli in brevissimi e geniali sketch: ma davvero la sfrontata e argutissima ironia con cui decide di farlo incanta, per freschezza, inventiva e spirito dissacratorio. Il cinema come antidoto alla morte e come inno alla vita, perché se il tema della morte è presente nel suo cinema, più o meno sotto traccia, fin dalle sue origini, la capacità di far convivere levità e dramma, infelicità e amore per la vita, disillusione e fiducia nel futuro è uno dei cardini fondamentali di tutto il cinema di Woody Allen.
“Morte a Venezia” cinquant’anni dopo
Esattamente come l’Adagietto della Quinta di Mahler che lo accompagna, uno schiudersi lentissimo, una luce fioca che dal nero pian piano illumina tutto, così l’assolvenza che apre Morte a Venezia sfuma dal nero dello schermo verso un’alba veneziana che sembra uscita dalle mani di Turner, con un impasto di colori caldi che si disfano uno nell’altro. Percepiamo subito un sorprendente senso di inquietudine sotterranea, insinuante, come se la bellezza di quelle immagini mascherasse un’insidia, un dramma nascosto che ancora non ci è chiaro. Quando la macchina da presa si sposta su Gustav von Aschenbach, seduto sul battello che sta entrando a Venezia, capiamo dal suo sguardo che quell’inquietudine, a cui la musica di Mahler ci stava preparando, è tutta interna al protagonista.
“The Photograph” e la fotografia come viaggio nel tempo
“Ciò che è straordinario in ogni fotografia non è tanto il fatto che là, secondo l’opinione corrente, sarebbe stato ‘fissato il tempo’, bensì al contrario, che proprio in ogni foto esso torna a dar prova di quanto sia in-arrestabile e continuo” . Queste parole di Wim Wenders affrontano, in velocità ma in modo assai puntuale, un tema centrale per chiunque si occupi di immagini: il tempo. Così una fotografia, mentre ferma, blocca e rende immutabile ciò che in essa compare, fermando il tempo in quell’unico irripetibile istante, allo stesso modo certifica anche l’inarrestabilità del tempo che scorre, il suo darsi solo in avanti. Una riflessione questa che ci porta nel fulcro centrale di The Photograph, l’ultimo film di Stella Meghie.
“Non ti presento i miei” tra militanza e tradizione
Il film si muove in un’idea di “tradizione”, sia cinematografica che culturale, ed è in effetti questo il punto nodale della questione e la sfida più difficile della regista Clea DuVall, già attivista lesbica da molti anni che qui maneggia un materiale parzialmente autobiografico: giocare con la tradizione, dentro alla tradizione e non metterla in discussione ma aggiornarla. Lavorare con le regole del genere senza ribaltarne il paradigma fondativo ma mostrando quanto i confini di quella che comunemente chiamiamo “tradizione” possano essere assai più elastici e permeabili alle novità di quanto si tenda a credere.
“Le belva” e la lezione di genere
Dichiariamolo subito: l’impressione di déjà vu è fortissima. Ma è proprio qui secondo noi, che si gioca la partita. Lavorare con un materiale narrativo scarno e molto noto e provare a renderlo comunque personale, cercando un intrattenimento di qualità, tecnicamente ben rifinito con una scrittura e una recitazione curate, senza sentirsi obbligati a sfoggiare un qualsivoglia bisogno di autorialità e senza nemmeno scadere nello scimmiottamento di cinematografie a noi lontane. Al netto di qualcosa che non gira come dovrebbe, il risultato è apprezzabile e di piacevole fattura.
Il cinema come vero Protagonista – Speciale “Tenet” III
Come sempre in Nolan, c’è molto di più di quel che appare: se è vero che alcuni personaggi vengono ridotti a semplici funzioni della storia, lo è altrettanto che, anche grazie a questa scelta, il regista è in grado di tracciare in filigrana una riflessione sul senso stesso del ruolo del protagonista, sulla sua capacità di prendere in mano la propria vita, di diventarne appunto Protagonista e dunque di intervenire nella storia per cambiarla. L’elemento umano, e la capacità del singolo di farsi carico di una responsabilità e di un rischio per una collettività (“perché lui può sopportarlo” diceva il commissario Gordon nel secondo Batman di Nolan) è un tratto distintivo in molte sue pellicole, ma mai lo era stato in una chiave così teorica. Un personaggio che ha nel nome il suo destino.
“Tornare a Vincere”. Uguale a tanti, diverso da quasi tutti
“Occhio ai dettagli!” ripete varie volte Jack Cunningham (Ben Affleck) ai suoi ragazzi. Li invita a non sottovalutare nulla in una partita di basket. Tutti i dettagli contano per portare a casa un risultato: ogni rimbalzo, ogni passaggio, ogni tiro. Sono i dettagli che alla fine fanno la differenza. Bisogna ammettere che questo consiglio, per chi decide di mettere in scena una classica e piuttosto convenzionale storia di redenzione attraverso lo sport, deve essere risuonata quasi come un mantra, se non addirittura come una dichiarazione di intenti. Come mantenere infatti un proprio sguardo riconoscibile e lasciare il proprio segno d’autore anche attraverso il racconto di una vicenda che di originale non ha praticamente nulla? Attraverso i dettagli. Attraverso ogni singola inquadratura.
Clint Eastwood e il cinema come impegno morale – Speciale “Richard Jewell” III
Come accadeva anche alla consegna delle medaglie nel finale di Ore 15:17 – Attacco al treno, nella quale realtà e finzione si mescolavano in un cortocircuito fortissimo e spiazzante (su cui ancora non si è ragionato abbastanza) là dove i protagonisti del film, essendo stati anche i veri protagonisti della vicenda, erano al contempo sia persone che personaggi, con le attrici che interpretavano le madri a fianco delle vere madri dei protagonisti, anche qui ci troviamo di fronte ad una scena che, analogamente, porta con sé una simile sovrapposizione concettuale: la madre di Jewell, l’attrice Kathy Bates, nel salotto della sua casa, guarda una intervista del figlio. Quello che sta guardando in televisione però è il vero Richard Jewell in un telegiornale dell’epoca.
Saper guardare l’altro. “La Dea Fortuna” di Ferzan Özpetek
Un Özpetek sempre più maturo e consapevole ci consegna qui forse il suo film più riuscito: fiero delle proprie fragilità, il suo è ancora un cinema capace di prendersi il proprio tempo, un cinema che sembra lasciare davvero liberi i personaggi, dove lo spazio scenico può essere finalmente esplorato e vissuto e non solo attraversato, dove non occorra intellettualizzare i sentimenti per evitare il melodramma, un cinema dentro al quale, per lo spettatore quasi prima che per i personaggi, è ancora possibile ballare e dove è possibile un finale fatto solo di sguardi e sorrisi, trattenuti l’uno nelle profondità dell’altro, per sempre.
Il sole, nonostante tutto. “Un giorno di pioggia a New York” – Perché sì
La pioggia è una delle componenti fondanti di tutta la pellicola, tanto da essere evocata fin dal titolo. Gocce che sembrano fatte di filamenti iridescenti che più che bagnare, illuminano i volti dei protagonisti. Amare la pioggia si rivelerà determinante, quasi una scelta di campo, perché non si può davvero vivere con chi non trova romantico camminare sotto la pioggia. Ma non è tutto qui. Per quasi tutto il film infatti, si ha l’impressione che piova col sole. Per lo meno questa è la curiosa impressione che la straordinaria fotografia anti-naturalistica di Vittorio Storaro riesce a creare. Una pioggia battente e incessante che però è sempre costantemente attraversata, tagliata, puntellata di raggi di luce caldi e avvolgenti.
Ricordando John Singleton
Il 29 aprile scorso, è morto a soli 51 anni un regista di cui si è sempre parlato troppo poco, John Singleton. Nato dieci anni dopo Spike Lee e dieci anni prima di Ryan Coogler, anche lui è stato un attento e appassionato osservatore della comunità afroamericana. Le sue pellicole non avevano la carica eversiva e rivoluzionaria di Lee, sia sul piano stilistico che dei contenuti e questo però ne ha certamente facilitato fin da subito l’apprezzamento e l’inserimento all’interno del sistema produttivo hollywoodiano. Tuttavia Boyz n the hood pellicola d’esordio con la quale Singleton ottiene la nomination all’Oscar come miglior film a soli 23 anni, resta un lavoro sincero e appassionato, capace di inserirsi senza intenti moralizzatori fin dentro le contraddizioni della comunità afroamericana, troppo spesso vittima della sua stessa violenza.
Speciale “The Mule” IV – La semplicità dei grandi
Il tempo è certamente un tema centrale nel film di Eastwood, come lo è anche in tutta la sua filmografia e non si tratta dunque solo di questioni anagrafiche. In tutti i suoi film infatti c’è sempre un momento in cui tutto il tempo passato, presente e futuro, sembra addensarsi attorno ad una singola scelta, un solo momento decisivo in cui il protagonista sente che ad un certo punto, deve prendere quella decisione e nessun altra. Questioni di coerenza, di etica, di verità. Fare la cosa giusta, assume nel cinema del regista sempre un valore che dall’individuale, si eleva all’universale. Essere decisi e dunque decisivi. Senza enfasi e clamori, sempre senza retorica, l’esempio del singolo che può ispirare una collettività, è una delle pietre angolari del cinema di Eastwood.
“Santiago, Italia” e l’etica della memoria
Il regista lascia che i volti e le parole riempiano la scena, alternati solo da immagini di repertorio e ritaglia per se un ruolo defilato, mai invadente, mai protagonista, sempre pudico, da testimone sensibile e partecipe. Solo in una occasione, ma determinante, sceglie di esserci, palesandosi dentro al documentario. Mentre intervista un militare, che pretendeva di difendere le ragioni di quel golpe, si sente dire che vorrebbe che la sua intervista venisse usata all’interno di un discorso imparziale su quegli avvenimenti. Qui Moretti decide di rompere la programmatica discrezione del suo documentario, la sua presenza/assenza fin lì mantenuta, che poi riprenderà poco dopo, perché ritiene sia necessario prendere una posizione chiara. Non si può raccontare un tentativo di sopravvivenza ad una dittatura e restare nell’ombra mentre qualcuno pretende di mettere sullo stesso piano le ragioni di chi scappa e quelle di chi toglie la libertà, diffonde il terrore e uccide.