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Una società sul bordo del precipizio. Intervista a Leonardo Guerra Seragnoli
Gli indifferenti porta in grembo, grazie anche alla sua matrice esistenzialista, alcuni scorci e taluni tratti caratteristici che si accordano bene alla nostra quotidianità. Deve aver pensato qualcosa di simile Leonardo Guerra Seragnoli, che per il suo terzo lungometraggio si è misurato con il romanzo in questione, trasponendolo proprio ai giorni nostri: un adattamento complicato e coraggioso, perché coniugare il confronto con un caposaldo della letteratura italiana e allo stesso tempo coglierne i suoi tratti di continuità storico-sociale era un’operazione in qualche modo rischiosa. L’abbiamo raggiunto virtualmente, per porgli tutte le domande del caso.
Dissidente, critico e organico: Gutiérrez Alea e la rivoluzione cubana
Alla mutevolezza della sua parabola artistica e politica si oppone la persistenza dell’indagine sociale nei suoi lavori, dettata da uno sguardo costantemente critico e dal frequente utilizzo della satira, diretta anche nei confronti del regime rivoluzionario cubano: non a caso, si autodefinì “un uomo che pone critiche all’interno della rivoluzione, al fine di migliorarne il processo e non di distruggerla”. Sta qui il dato eccezionale di Gutiérrez, cioè la capacità di mantenere aperti gli spazi di critica e satira artistica anche nella peculiare situazione dello Stato castrista: aspetto che emerge con forza dalla visione de La morte di un burocrata, dove gli attacchi alle storture del meccanismo statale e all’apparato propagandistico vengono espressi senza metafore. Sarebbe decisamente ingiusto limitare l’analisi del film del 1968 esclusivamente al suo contenuto politico, dal momento che La morte di un burocrata esibisce in controluce il tratto rivoluzionario presente anche nello stile di Gutiérrez, ora quanto mai distante dal neorealismo e debitore degli influssi di un certo cinema europeo a lui contemporaneo (su tutti, Buñuel e Bergman). Tuttavia, risulta sorprendente pensare a una tale libertà espressiva in un contesto totalitario.
Tra Iliade e Odissea. Ancora su “Quando eravamo re”
Inaspettatamente, Quando eravamo re ottenne il premio dell’Academy; allo stesso modo, 22 anni prima, Alì era riuscito a smentire ogni pronostico di fronte ai sessantamila fortunati dello Stade Tata Raphael e un miliardo di telespettatori sbalorditi. Non serve soffermarsi sul perché quell’incontro abbia preso un posto nell’olimpo sportivo: l’imprevedibile strategia portata sul ring dal fu Cassius Clay, unita alla narrativa del David contro Golia, risulta sufficiente per giustificare ciò. Tuttavia, se il documentario di Gast avesse semplicemente catturato gli otto round del combattimento, forse avrebbe attirato solo l’attenzione degli amanti del pugilato e dello sport; invece, sono proprio le immagini dell’avvicinamento alla sfida a dare giustizia alla fenomenalità comunicativa di Alì.
Signornò, signore! “F.T.A.” e il tabù dell’insubordinazione
F.T.A. si preannuncia come una delle occasioni imperdibili per fare un salto nel passato novecentesco, rivivendo gli sconvolgimenti interni vissuti dagli USA durante la guerra del Vietnam. Girata nel 1972 da Francine Parker e prodotto da lei stessa, assieme a Jane Fonda e Donald Sutherland, la pellicola ebbe il pregio di catturare dal vivo il Free (o F**k: l’ambiguità è voluta) The Army Show, che vide i due attori hollywoodiani girare in tour le principali basi militari statunitensi, dentro e fuori i confini naturali del Nord America. L’obiettivo consisteva non solo nel mettere in scena uno spettacolo antitetico a quello militarista di Bob Hope (attaccando le alte sfere militari e contestando l’entrata degli USA nel conflitto), ma anche nel creare un legame tra i soldati animati dal malcontento verso la situazione in atto nello scenario asiatico.
Tarkovskij oltre il documentario: “Tempo di viaggio” al Cinema Ritrovato 2020
L’inserimento della pellicola nella sezione “Documenti e documentari” non ne costituisce una categorizzazione stretta nel mondo documentarista, proprio a cagione di un’insofferenza del nostro verso i codici dei generi, criticati da una prospettiva che tuttavia ha poco da spartire col paradigma postmodernista. Tarkovskij non pone infatti il superamento dei confini del genere nell’ottica di una divisione temporale tra un “vecchio cinema” e una nuova vulgata postmoderna: è la sua stessa concezione dell’arte, fin dagli esordi, ad imporre il travalicamento dall’angusta dimensione del genere, i cui tratti caratteristici devono sfumare in funzione dell’universalità del contenuto. Tale proposito artistico viene esplicitato proprio in Tempo di viaggio dallo stesso regista, che vide il suo Stalker come la più compiuta realizzazione di tale intento.
L’eccezionalità morale e materiale di “Arab-Israeli dialogue”: intervista a Michael Rogosin
Nell’orbita delle produzioni cinematografiche o televisive dedicate alla spinosa e purtroppo sempreverde questione israelo-palestinese, Arab-Israeli dialogue si presenta alla vista dell’osservatore contemporaneo come un prodotto più unico che raro, alla cui apparente semplicità spoglia fa da contraltare una profondità intellettuale ed umana quasi inaspettata. Quale sia l’oggetto dell’opera di Lionel Rogosin, la cui lunghezza si limita a 40 minuti quanto mai incisivi, è presto detto: una conversazione tra due amici, Amos Kennan e Rashid Hussein. Il primo, autore ed artista israeliano, legato alle posizioni del socialismo sionista, combattente per la Lehi prima e l’IDF poi; il secondo, poeta palestinese e profugo. Filmato una settimana prima dello scoppio della guerra dello Yom Kippur, è stato presentato – ça va sans dire, in versione restaurata – in un appuntamento pomeridiano all’Auditorium-DAMSLab, congiuntamente con Imagine Peace, documentario girato da Michael Rogosin, che di Arab-Israeli dialogue costituisce la doverosa integrazione. Qui di seguito, pubblichiamo la conversazione avuta con Michael Rogosin, il quale – assieme al fratello Daniel – si occupa da quindici anni di recuperare e diffondere la produzione artistica del padre.
Decisive, imprevedibili, indipendenti: le dark ladies del cinema di Felix E. Feist
Dietro il nome di Felix E. Feist si srotola un cursus honorum che in poco più di vent’anni ha sospinto l’autore newyorkese da un orizzonte filmico all’altro; su una linea che congiunge idealmente il disaster movie Deluge (1933) all’horror sci-fi di Donovan’s Brain (1953), il nostro approdò all’hard boiled solo nel 1947, dopo aver passato gli anni della guerra dirigendo musical e commedie rosa. Pur collocandosi nell’orbita del mondo noir, i quattro titoli selezionati non suonano la stessa musica: se la distinzione tra i b-movies (Devil Thumbs a Ride e Threat) e le due pellicole successive appare come palese all’osservatore, ciononostante essa non rappresenta l’unico elemento di divergenza all’interno dei noir di Feist.
“Il gatto a nove code” tra sapienti rimandi e sperimentazione
A due anni di distanza dalla riproposizione de L’uccello dalle piume di cristallo, il Cinema Ritrovato 2019 ha deciso di proseguire il percorso dedicato alla celebre trilogia argentiana, riservando agli appassionati del thriller una proiezione serale de Il gatto a nove code. Malgrado tale scelta appaia coerente ed organica, non va dimenticato come il secondo film dell’autore romano abbia sofferto per decenni della sindrome del figlio di mezzo, considerato insoddisfacente dal proprio padre artistico e relegato all’infelice posizione di pellicola minore; fortunatamente, proprio a seguito di una retrospettiva losangelina, lo stesso Argento ha ritrattato i propri giudizi negativi sul lavoro del 1971.
Surrealismo o neorealismo? L’identità unica e ambigua di “I figli della violenza”
Uno dei dati più interessanti dell’opera risulta proprio nel posizionamento ambiguo del film rispetto alle correnti artistiche cui strizza l’occhio. Come un osservatore neorealista, Buñuel trascorse sei mesi nei quartieri poveri della metropoli messicana, mescolandosi nel sottobosco sottoproletario e registrandone i tratti sociali; tuttavia, basta ascoltare la voce narrante nel prologo per comprendere l’anelito globale del film, che mette in secondo piano i tempi e i luoghi veri della vicenda. In qualche modo, la focalizzazione su un panorama pre-urbanizzato dai tratti mitici e l’ottica anti-positivista dell’autore sembrano più accostabili al successivo cinema pasoliniano, piuttosto che al neorealismo zavattiniano (per quanto l’aspetta della vicenda non possa non rimandare a Sciuscià).
Alla ricerca del mecenate: l’odissea di Alejandro Jodorowsky tra produttori e utopie
A quasi cinquant’anni di distanza, i lungometraggi di Jodorowsky – in particolare El Topo e La Montaña Sagrada – sono portati come esempio della sperimentazione e della temperie artistica dei primi anni ’70, legata alla diffusione di una certa spiritualità orientale in Occidente e ovviamente all’uso meditativo delle droghe psichedeliche: in tal senso, la fortuna dei film sopra citati è ancora oggi consistente. Com’è invece noto agli appassionati, il plauso verso i lungometraggi di Jodorowky non fu assolutamente unanime all’epoca della loro realizzazione, spingendo l’artista di Tocopilla ad attraversare avventure ancor più paradossali e sconcertanti rispetto a quelle vissute dai personaggi dei suoi stessi film.
La decostruzione di un mito sfuggente. Il recupero scorsesiano della Rolling Thunder Revue
In un panorama contemporaneo dove la riflessione sull’autenticità dell’informazione coagula buona parte del dibattito pubblico, neppure l’ultimo lavoro di Martin Scorsese, dedicato alla Rolling Thunder Revue, è potuto uscire indenne da un severo fact-checking dei suoi critici: sono bastate le prime avvisaglie di palesi incongruenze con la vulgata dylaniana a far nascere un florilegio di articoli dedicati ad elencare le fake stories della narrazione documentaria, quasi nel tentativo di restituire – di contro – una nitida occhiata del tour di “His Bobness”. La caccia alla bufala è quindi divenuta un piacevole giochino per ogni appassionato, rischiando tuttavia di lasciare inevase le domande sul motivo di una scelta di questo tipo: domande non ancora poste all’autore newyorkese, il quale – dal canto suo – si è limitato ad una sibillina video-intervista pubblicata da Netflix in occasione dell’uscita del film.
L’affezionato ricordo di un artigiano della luce: intervista a Stefano Delli Colli
L’occasione è la pubblicazione di un volume biografico, che rende giustizia alla sua lunghissima carriera raccontando il “dietro le quinte” di un uomo quanto mai riservato nella vita pubblica. A scriverlo, non poteva essere che il figlio Stefano, giornalista dal 1982, nonché direttore responsabile di Staffetta quotidiana prima e Quotidiano energia poi. A pubblicarlo, la giovane casa editrice Artdigiland, all’interno di una collana dedicata all’uso della luce in ambito artistico, laddove ci si focalizza sul mondo cinematografico (ma non solo), con volumi dedicati ad alcuni dei numi tutelari: Giuseppe Lanci, Luciano Tovoli (con un libro dedicato a Suspiria) e Luca Bigazzi sono i nomi che spiccano. E proprio la realizzazione del volume su Lanci è stata l’occasione per l’incontro tra la direttrice della casa editrice, Silvia Tarquini, e Stefano Delli Colli.
C’era una volta Sergio Leone: intervista a Sir Christopher Frayling
Deve proprio essersi sentito a casa, Sir Christopher Frayling, muovendosi tra i libri e i visitatori della biblioteca Renzo Renzi: lui, massimo esperto del cinema di Sergio Leone, esattamente in mezzo ai manifesti di Per un pugno di dollari e C’era una volta in America (rispettivamente secondo e ultimo film del regista romano), che spiccano sopra gli scaffali della Book Fair nella Cineteca bolognese. Del resto, un ospite della sua caratura non poteva mancare, nel giorno della proiezione in Piazza Maggiore di quello che – assieme a C’era una volta in America – resta impresso come il film più gravido d’epos del cinema leoniano: C’era una volta il West, ovviamente, di cui viene celebrato il cinquantesimo anniversario.
A cavallo tra storia e finzione: il rivoluzionario Mastroianni di “I compagni”
Nella sterminata filmografia di Mastroianni, un film come I compagni rischia di apparire come secondario, soverchiato da un numero invidiabile di classici usciti a brevissima distanza. In quei tre anni – dal 1960 al 1963 – arrivarono sullo schermo, una dopo l’altra, le perfomance più ricordate dell’attore, che si giostrava tra il gotha di registi del decennio passato e presente: dai capolavori felliniani (La dolce vita, 8 e ½) a Ieri, oggi e domani di De Sica, passando per i ruoli siciliani del bell’Antonio e del barone Fefè Cefalù, senza dimenticare l’esperienza con Antonioni in La notte. Di fronte a titoli così ingombranti, fondamentali per l’esplosione dell’icona Mastroianni nell’immaginario collettivo, sembra spontaneo attribuire un’importanza minore, per la sua carriera, alla pellicola di Monicelli.
“Il mio Antonioni”, ultimo lascito di Carlo di Carlo: intervista a Lorenzo Cuccu
All’ombra di Palazzo Re Enzo, in collaborazione con il bar “La Linea”, si sviluppa l’appendice libraria del Cinema Ritrovato: con il nome di Otto libri sotto le stelle, la rassegna dà spazio agli oggetti librari cinefili di recente pubblicazione, talvolta in collegamento con le proiezioni in sala del festival. Sotto il segno del cinema d’autore italiano, il primo happening – coordinato da Paolo Mereghetti – è stato dedicato alla presentazione de Il mio Antonioni, curato da Carlo di Carlo, sfortunatamente scomparso nel 2016. Tramite un complesso lavoro mosaicale, il regista bolognese (nonché assistente di regia per alcuni film di Antonioni e Pasolini) aveva provveduto a fornire una personale elaborazione della figura del regista ferrarese, estrapolando le sue parole da scritti e interviste e assemblandole nel libro.