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“Stranger Eyes” più interessante da discutere che da vedere

Stranger Eyes, il quarto lungometraggio scritto e diretto da Siew Hua Yeo, arriva nelle sale italiane dopo la candidatura al Leone d’oro. La ricerca di una bambina scomparsa da parte dei giovani genitori, piuttosto che articolare un’intreccio tipicamente thriller, funge da pretesto per discutere dell’annosa questione filosofica sul rapporto fra osservatore e osservato. Il punto di vista della macchina da presa tende sempre all’oggettività, all’asettica distanza ideale per studiare il soggetto, 

“Gli indesiderabili” della Francia arrabbiata

Gli indesiderabili è un’opera claustrofobica, che ricorre a piani molto stretti per esasperare l’impotenza dei personaggi, vessati da interventi della polizia sempre più intrusivi e violenti. Quando si tratta di cinema politicamente impegnato, la Francia dovrebbe venire universalmente presa d’esempio per la capacità di narrare la rabbia sociale con crudezza. Anche in questo caso gli autori non si preoccupano di essere accomodanti, di fornire un modello propositivo. Il focus è sempre sulla sofferenza,

Il west straniante di Robert Altman. “I compari” e la revisione del mito

Il western è sempre stato lo specchio degli Stati Uniti, il genere epico per eccellenza, celebrativo della storia nazionale e spesso investito dell’onere di rispecchiarne i valori. Era già da diversi anni, quando usciva nelle sale I compari, che la cultura e il cinema statunitensi venivano revisionati sotto uno sguardo critico e disilluso. Complice anche la guerra in Vietnam, già bersaglio della satira altmaniana, si viene a creare un clima culturale di ripensamento sul ruolo della nazione nel mondo.

“The Devil in Miss Jones” contro la repressione sessuale

L’occulto fa in Miss Jones da contraltare positivo alla repressione sessuale, più o meno esplicita, che accumuna gran parte dei protagonisti femminili del cinema statunitense del passato. Il titolo stesso del film (The Devil in Miss Jones) fa il verso a The Devil and Miss Jones (in Italia Il diavolo si converte, 1941), sfottendo una rappresentazione antiquata di donna fiera della sua frigidità, più devota al dovere e alla prole che a sé stessa.

“Freaks” estraneo alla norma sociale

Non vale qui la solita retorica dei film sulla diversità, il classico “chi sono i veri mostri” di The Elephant Man o La bella e la bestia, in Freaks la rivalsa del diverso si raggiunge tramite l’efferatezza di cui solo una persona “normale” sarebbe capace. Browning è sempre stato il solo a credere nel progetto e nella dignità degli attori che aveva ingaggiato, veri artisti affetti da disabilità con una carriera alle spalle.

“I sette samurai” dal passato al presente

Come già in Rashomon, Kurosawa sfrutta il passato anche per parlare del presente: dell’individualismo predatorio del secondo dopoguerra, parzialmente ereditato dalla cultura dell’occupatore statunitense. L’approccio umanista rappresenta per l’autore giapponese, coerentemente con gran parte della sua filmografia, la via auspicabile per la coesione sociale, il termine della lotta di classe.  Afferma infatti il samurai Kambei, per appianare l’attrito fra guerrieri e contadini: “Chi difende tutti difende se stesso, chi pensa solo a se stesso si distrugge”.

“Deriva a Tokyo” tra parodia e indagine esistenziale

Il racconto del vagabondaggio di “fenice” Tetsu, ex yakuza braccato da un clan rivale per la sua fedeltà al suo vecchio boss, fornisce a Suzuki il pretesto per indagare e parodiare l’incertezza esistenziale di quegli anni. La sobrietà di Tetsuo si staglia visivamente fra architetture espressioniste e scenografie coloratissime, ambienti e oggetti artificiosi, fieramente esibiti per il gusto di una modernità autocelebrativa

“I corpi presentano tracce di violenza carnale” e l’invenzione dello slasher

Si rimane più colpiti dall’inedito livello di gore degli omicidi che dalle idee proposte. È durante l’ultimo atto, quando gli spazi aperti lasciano il posto alla claustrofobia di una villa in campagna, che l’opera evolve in qualcosa di nuovo e l’effetto d’insieme sublima la somma delle sue parti. Qui Martino, insieme al Reazione a catena di Mario Bava, inventa di fatto lo slasher prima dei vari Non aprite quella porta, Halloween o Black Christmas.

“L’odio” e l’epicentro dell’ingiustizia

L’odio è visivamente un film ruvido, di forti contrasti e contraddizioni destinati a non trovare una sintesi. Da un lato la periferia degradata, ma luminosa e accogliente, dall’altro la Parigi bene, immortalata con ammirazione in centinaia di opere, che diventa qui il tenebroso epicentro dell’ingiustizia. È allarmante che dopo quasi trent’anni L’odio rimanga un film attualissimo. Casi di cronaca riguardanti la brutalità della polizia si sprecano e ogni volta ci si avvicina a quell’atterraggio profetizzato da un giovane autore poco più che esordiente. 

“Come fratelli” dentro una rabbia sopita

Mantenendo sempre l’attenzione su rabbie sopite e amori esplicitati, l’autore riprende il tema della famiglia alternativa, caro alla cinematografia asiatica, basti pensare a Kore’eda. Come per il cineasta giapponese, anche in Come fratelli – Abang e Adik sono i personaggi e non la biologia a decidere i rapporti famigliari: in primis i due protagonisti, uniti da un legame fraterno che in diverse occasioni sfiora volutamente l’omoerotismo, così come Jia En, che trascura la sua vera parentela per dedicarsi ai bisognosi.

“The Dreamers” e la cinefilia morbosa

A metà fra Prima della rivoluzione e Ultimo tango a Parigi, The Dreamers è un racconto sul suicidio dell’utopia, su passioni ingenue vissute ingenuamente, in cui i personaggi cercano disperatamente di esprimersi attraverso i corpi, morboso come solo le migliori opere di Bertolucci. Perfino la cinefilia dei personaggi è malsana e diventa uno strumento di ricatto, un pretesto per giocare a fare i sadici umiliando sessualmente chi non coglie la colta citazione cinematografica di turno.

“Il maestro giardiniere” ovvero Schrader l’impeccabile

È un cinema che procede per sottrazione, dove ogni elemento spicca autonomamente, sia che si tratti della rilassante voce narrante del protagonista o del fragore di ossa che si spezzano. Che la scrittura di Schrader sia impeccabile è oramai un fatto assodato, ma in Master Gardener, ancor più che in Il collezionista di carte, riesce a fondere ambientazione e personaggi ai temi portanti della narrazione. 

“Una claustrocinefilia” e l’amore (per il cinema) ai tempi del Covid

L’opera prima del critico Alessandro Aniballi si presenta come una stratificazione sinergica di diversi contenuti e approcci, decodificabile nelle sue singole componenti solo a costo di snaturarne l’organicità e l’efficacia espressiva. Una claustrocinefilia è certamente un documentario metacritico finemente strutturato, ma prima di tutto una sofferta storia d’amore a senso unico, fatta di disillusione e abbandono quanto di dipendenza e affiatamento, verso quell’oscuro oggetto del desiderio che è il cinema.

“Ovosodo” e il ritorno del cult spensierato

Il successo di pubblico e critica quanto i riconoscimenti nazionali e internazionali parlano chiaro sulla popolarità di Ovosodo. Il terzo lungometraggio diretto interamente da Paolo Virzì si è guadagnato il titolo di film di culto anche perché invecchiato molto bene, sia dal punto di vista tecnico che per la persistente attualità del suo messaggio. In questa commedia generazionale e di (de)formazione si trovano già in nuce i temi e la cifra stilistica del Virzì che sarà.

“The Wicker Man” estatica celebrazione dell’horror

“Il Quarto potere dei film horror”. Così la rivista di culto Cinéfantastique definì nel 1977 The Wicker Man, capolavoro del cinema inglese realizzato in un periodo difficile per l’industria britannica. La stessa British Lions, produttrice del film, venne comprata durante le riprese obbligando la troupe a finire il prima possibile. Una volta distribuita, l’opera non ottenne l’attenzione che meritava ma venne riscoperta già pochi anni dopo, diventando un cult.

Il cinema in costume di Kinugasa tra storia e melodramma

Film come La battaglia di Kawanakajima (1941) e Il bonzo mago (1963) testimoniano come Teinosuke Kinugasa sia stato un autore capace di giocare con la storia del Giappone. Il primo caso rappresenta una vera e propria acrobazia artistico-diplomatica per l’autore, che accoglie la richiesta governativa di opere a carattere storico ‘più serie’ dei popolari chambara del periodo.  In tutt’altro contesto si colloca Il bonzo mago, realizzato in anni certamente più permissivi e ambientato nell’epoca Nara (VIII secolo d.C.), un periodo caratterizzato da cambiementi culturali più che da spargimenti di sangue.

“La maschera del demonio” e la concretezza dell’orrore

L’eccezionalità di La maschera del demonio non è dovuta all’originalità narrativa, piuttosto all’incredibile perizia tecnica di Bava, curatore anche degli effetti speciali, e dalla conseguente concretezza materiale della sua messinscena. Realizzato con mezzi esigui, La maschera del demonio è infatti una lezione imprescindibile di ottimizzazione del budget: basti pensare che l’intera cripta presente nel film è una stanza di circa nove metri quadrati e che tutte le scenografie sono cartapesta mascherata da macchine per il fumo.

“La casa dalle finestre che ridono” favola macabra contadina

L’unicità dell’opera risiede nella personalissima visione di Avati, che si approccia al genere a più riprese, l’ultima delle quali è Il signor Diavolo. L’autore rifugge tanto il labirintico contesto della metropoli notturna quanto l’isolamento di tetre magioni in boschi inospitali. Avati prende piuttosto la famigliare realtà del paesino di campagna, che ha conosciuto quando sfollato per via della guerra, e ne orrorifica le dinamiche culturali, facendo emergere dalla favola contadina un sottotesto macabro ed esoterico.

“Thelma & Loiuse” tra solidarietà e vendetta

In diversi studi, Thelma & Louise viene poi annoverato anche fra i rape & revenge insieme ad opere che si focalizzano con maggiore enfasi sulla violenza sessuale, come L’angelo della vendetta o Thriller. Sebbene opinabile come classificazione, le coordinate etiche dell’opera di Scott sono sovrapponibili a quelle di molti film appartenenti a quel genere, dal ginocentrismo antisociale al giusizialismo palliativo.

“Guardiani della Galassia Vol. 3” più adulto e riuscito

I fan della saga e della Marvel in generale avranno motivo di apprezzare Guardiani della galassia vol. 3, un grande more of the same realizzato con gusto, conclusione dell’unica serie MCU con una coerenza stilistica interna. Considerando Guardiani della galassia vol. 3 come opera autonoma, ci si trova dinnanzi a un ottimo film d’intrattenimento con una buona profondità drammatica e che non fa soffrire affatto le sue due ore e mezza di lunghezza.