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“La cosa migliore” e il giudizio sospeso

La macchina da presa di Federico Ferrone segue con sicuro piglio documentaristico i personaggi di La cosa migliore attraverso gli spazi del nostro Nord-Est post-industriale, freddi e sovrastanti nella loro monumentalità. Parcheggi e bar dove si cercano forme di creatività e di aggregazione, casermoni geometrici dove la vita famigliare non ha spazi di riservatezza per elaborare perdite o sentimenti di intimità, fabbriche senza più una catena di montaggio ma comunque alienanti e sempre organizzate secondo un’ottica di caporalato e nonnismo.

“Terra incognita” e i confini tra natura e industria

Terra incognita compie una complessa ricerca iconografica, fatta di accostamenti di paesaggi naturali e industriali, apparentemente opposti, che tuttavia contengono, al loro interno, continui rimandi all’altra realtà, non solo nel carattere monumentale delle Alpi e della costruzione della centrale, ma anche in dettagli apparentemente minori, come le immagini di porte, antri e tunnel che contraddistinguono sia la natura che l’impianto nucleare.

“A cavallo della tigre” disarcionati dal boom

Realizzato nel 1961, A cavallo della tigre riuniva il meglio della commedia all’italiana. La sceneggiatura era, infatti, opera dello stesso regista del film, Luigi Comencini, fresco dei grandi successi di Tutti a casa (1960) e del dittico Pane, amore e fantasia (1953) e Pane, amore e gelosia (1954), Mario Monicelli e della collaudata coppia Age e Scarpelli, che aveva già collaborato con Comencini per il precedente Tutti a casa.

“La prima notte di quiete” come melodramma queer

Gran successo di pubblico del 1972, La prima notte di quiete di Valerio Zurlini viene solitamente rappresentato dalla critica come un iconico melodramma dell’eterosessualità. All’enfasi melodrammatica contribuiscono la colonna sonora e le numerose citazioni letterarie romantiche. Ma vale la pena andare più a fondo per trovare nuovi sguardi e nuove analisi di questa celebre opera con Alain Delon. 

“La Ciociara” e la consacrazione della star

La Ciociara (1960) apre la decade della definitiva consacrazione di Sofia Loren a star internazionale, status a cui il film di De Sica contribuisce in modo determinante facendo vincere all’attrice, tra i tanti prestigiosi riconoscimenti, quello più ambito: l’Oscar per la migliore interpretazione femminile. La Ciociara doveva essere inizialmente il film di due star, con Anna Magnani nel ruolo di Cesira e Loren in quello della figlia. I dubbi e il rifiuto finale della Magnani furono alla base della trasformazione del film in un veicolo per la Loren, unica vera star.

“La morte è un problema dei vivi” e i margini della società

Teemu Nikki, autore del premiato Il cieco che non voleva vedere Titanic (2021), torna ad occuparsi di malattia e di vite ai margini della società, i cui capitoli sono scanditi sapientemente da una colonna sonora sospesa tra jazz e rock finlandese degli anni ’80 a sottolineare le differenze tra i due personaggi principali, ma anche il destino che li lega. Infatti, Risto e Arto ascoltano alternativamente i diversi generi di musica all’interno della nuova “casa” comune in cui si sono trasferiti.

“Sbatti il mostro in prima pagina” evocativo del cinema politico post-68

Sbatti il mostro in prima pagina (1972) è immediatamente evocativo della capacità di un certo cinema italiano degli anni che hanno seguito il ’68 e preceduto il terrorismo di creare dibattito e passione politica. La denuncia del controllo dell’informazione da parte del capitale a scopo di contenimento politico, tuttavia, non fu unanimemente considerata in chiave anti-padronale, nonostante il soggetto di Sergio Donati, a cui inizialmente era stata affidata anche la regia, fosse stato rielaborato da Bellocchio e Goffredo Fofi, autore vicino alla galassia extra-parlamentare.

“Fremont” tra migrazione e futuro

Co-sceneggiato da Caterina Cavalli, reduce dal successo di Amanda (2022), e dal regista britannico-iraniano Babak Jalali, Fremont racconta, ancora una volta, una storia di immigrazione negli Stati Uniti alla ricerca di un futuro migliore, ma con un bianco e nero asciutto e una scrittura priva di retorica edificante con annessa mobilità sociale. La protagonista Donya, profuga afghana, dice chiaramente di voler un futuro migliore al suo originale psicanalista che la conduce con bizzarra brutalità a confrontarsi con il suo disturbo da stress post-traumatico.

“L’infernale Quinlan” e la diva Marlene

Annunciato da Newsweek come la grande occasione per il ritorno a Hollywood del prodigio Welles dopo dieci anni trascorsi in Europa, L’infernale Quinlan (1958) ebbe invece una lavorazione complicata che culminò con la decisione della Universal di esautorare il regista dalla postproduzione e incaricare Harry Keller di dirigere alcune scene per migliorare la continuità e la comprensibilità del film.

“Il bandito della casbah” onirico oltre il realismo

È impossibile non rimanere affascinati da questa figura di malvivente fragile che sogna di ritornare in patria insieme alla donna che ama e questa è un’altra peculiarità non banale del film, anche se largamente condivisa con altri film del “realismo poetico” come Il porto delle nebbie (1938) e Alba tragica (1939), sempre con Gabin: il suo spingerci a empatizzare con un personaggio, che, più che un criminale, sembra un senza terra, e più che dalla polizia, appare essere braccato da un destino incombente.

“I monelli” e i panni sporchi della Spagna franchista

L’esordio alla regia di Carlos Saura è un affresco della condizione dei giovani sottoproletari nelle degradate periferie urbane della Spagna franchista. I sei protagonisti, uniti da una forte solidarietà, attraverso furti e aggressioni, cercano di coronare il sogno di uno di loro di diventare torero. Pesantemente censurato e poi paradossalmente scelto dal regime per rappresentare la Spagna a Cannes, ritorna nella versione originale grazie a un complesso lavoro di restauro della Filmoteca Española.

“La città si difende” e il noir all’italiana

Pur ricevendo il Premio per il miglior film italiano alla dodicesima edizione della Mostra del cinema di Venezia, La città si difende non fu generalmente apprezzato dalla critica italiana né nella cornice veneziana né all’uscita nelle sale. Queste valutazioni hanno contribuito al progressivo oblio a cui il film è stato consegnato, oscurando così anche quella rielaborazione di un immaginario noir attraverso modelli nazionali che il cinema italiano inizia a compiere fin dai primi anni Cinquanta .

“In nome della legge” e la rappresentazione della mafia

Primo film a occuparsi esplicitamente di mafia nel dopoguerra basandosi sul romanzo Piccola pretura (1948) del magistrato Giuseppe Lo Schiavo, ma anche primo poliziesco o primo western italiano a seconda delle diverse prospettive e sensibilità di genere, In nome della legge di Pietro Germi è rimasto in una certa parte della memoria cinematografica della critica italiana come un modello immorale, seppur di successo e di forza drammatica, di dialogo tra Stato e mafia che ha esteso la sua lunga ombra anche sul nostro successivo cinema civile.

“Gioventù perduta” e la borghesia criminale di Germi

Gioventù perduta bilancia questa prima illustrazione di una classe borghese criminale, che verrà ripresa successivamente da Antonioni ne I vinti (1953) e in film ormai dimenticati come Gioventù alla sbarra (1953) di Ferruccio Cerio e I colpevoli (1957) di Turi Vasile, affiancando alla storia del delitto quella dell’indagine. Questa seconda dovrebbe mostrarci la speranza di chi, per citare il pressbook, “per il bene combatte con coraggio e lealtà”.

“E la festa continua!” nel cinema delle meraviglie

Le note, nostalgiche e bellissime, di Emmenez-moi di Aznavour non sono meno importanti di Marsiglia come della regia, della scrittura e della recitazione: invadono e saturano tutto il film, sia nella sua dimensione diegetica (i protagonisti imparano la canzone per la commemorazione del tragico crollo di due stabili inabitabili ma occupati di Rue d’Aubagne del 2018) sia come commento al rapporto tra Rosa e Henri, restituendone tutta l’impetuosità di utopia sentimentale e politica.  

“Matti da slegare” ancora oggi

Matti da slegare è un documento storico che parla di una determinata epoca e di un esperimento cinematografico che abbraccia contenuto e formula produttiva. Questo non significa, tuttavia, che questo carattere di testimonianza storica ne esaurisca il valore. A guidare i quattro autori, come dichiarato nella nota introduttiva, è la ferma convinzione di far parlare i pazienti senza “ripulire” i loro discorsi e normalizzare la “‘diversità’ del parlato proletario”. Non c’è, quindi, il tentativo di un approccio asettico e che rivendica oggettività.

“Te l’avevo detto” e l’apocalisse collettiva

Dopo il buon successo di critica ottenuto con il suo esordio, Magari (2020), Ginevra Elkann ritorna ad occuparsi di una serie di coppie disfunzionali con Te l’avevo detto, sceneggiato sempre insieme a Chiara Barzini con l’aggiunta di Ilaria Bernardini. Diversamente dal primo film, non sono tanto i legami sentimentali quanto le dipendenze e gli incubi del passato a caratterizzare i rapporti tra i personaggi.

Ryan O’Neal il duro non balla più

La carriera di Ryan O’Neal ha attraversato molte forme e diversi generi del panorama mediale contemporaneo. Dalla soap opera che lo ha fatto conoscere al grande pubblico televisivo degli anni ’60 all’inaspettato successo nel ruolo del ricco rampollo innamorato Oliver Barrett IV nel blockbuster strappalacrime per eccellenza degli anni ’70, dall’approdo ai film d’autore fino al debutto teatrale e al ritorno alla televisione negli anni 2000, O’Neal ha continuato ad essere, nell’arco di sessant’anni, uno dei volti più noti dell’industria cinematografica e televisiva americana.

“Dream Scenario” manifesto conservatore travestito da indie movie

Dopo il successo del precedente Sick of Myself (2022), Dream Scenario segna l’esordio di Borgli in una produzione indipendente americana del talentuoso Ari Aster per A24. Sorprende, tuttavia, come l’unione di menti così non convenzionali abbia dato origine ad un manifesto conservatore travestito da film hip e indie, un’ode all’uomo qualunque americano come non se ne vedevano da tempo e di cui, francamente, non si sentiva troppo la mancanza.

Nella biblioteca di Antonio Faeti per “Continuare il racconto”

In uno dei passaggi più belli di questo film che si vorrebbe infinito come la biblioteca che ne è protagonista, Antonio Faeti racconta di aver visto I 400 colpi nella sua prima settimana da insegnante delle elementari: una visione che anticipa quello che osserverà nei suoi anni di scuola e che diventa simbolo di un modo di intendere la sua professione, con il senso di indeterminatezza finale su quelle note che Faeti ricorda ancora e che si mette a canticchiare davanti alla macchina da presa.