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Un male troppo seducente? – Speciale “Joker” IV
C’è una sorta di estasi mistica che avviluppa il pubblico dopo aver visto Joker. Un mantra impossibile da scacciare, che recita più o meno così: Joaquin Phoenix immenso/totalizzante; film necessario, specchio dei tempi, Oscar, interpretazione fisica, Taxi Driver contemporaneo. Qualcuno si potrebbe avventurare anche in “un pugno allo stomaco”, ma noi restiamo un passo indietro. Tutto molto vero, comunque. Tutto? Beh, forse non proprio tutto. Perché Joker, a conti fatti, è un film che danza un pericoloso tango con la giustificazione del male, rischiando di incagliare il suo messaggio nell’esaltazione dello sbagliato, e facendo più danni di quanti vorrebbe. Ma che cosa c’è di potenzialmente sbagliato nell’involuzione di Arthur Fleck, e perché la (quasi) pandemia statunitense rischia di essere comprensibile?
Cinefilia MCU – Speciale “Avengers: Endgame” II
Il MCU è la prova tangibile che un cinema supereroistico diverso è possibile. È la prova che si può essere autori anche scrivendo i dialoghi di un procione parlante o inserendo un cammeo di Jerzy Skolimowski che tenta di torturare la Vedova Nera. Perché il MCU ha dimostrato che si può amare La ragazza del bagno pubblico e allo stesso tempo sentire i brividi quando “Io sono Iron Man” apre e chiude il più grande miracolo cinematografico mai concepito, esattamente come un bambino che divora i fumetti nella sua cameretta, al buio, con la torcia sotto le coperte. Un bambino che crescerà e ritornerà piccolo film dopo film, fino a che le luci non si accendono e si rende conto che non ci sono più scene dopo i titoli di coda (perché il MCU ha cambiato anche questo nell’educazione della sala: il rimanere letteralmente fino alla fine), fino a rendersi conto che questa saga, nel bene e nel male, la amerà per sempre a tremila.
Speciale “Noi” di Jordan Peele – III
Peele sa perfettamente quello che vuole dire, sfruttando stilemi del genere (Haneke, su tutti), accompagnandoci nel suo (o nel nostro?) mondo grazie a un sottofondo ironico che stempera e rende più accessibile il film. La danza con lo spettatore che Noi compie è serrata, lasciando noi con un “vuoto di parola”, assorbiti da un binomio immenso e singolo: un popolo aggiogato e una donna nel suo lucido delirio. Animali delusi (e illusi), senza traccia sulla loro stessa terra, guidati, in apparenza, da uno stelo d’erba inerme, arso da un sole al neon. “Vittime, non lo siamo tutti?” direbbe Eric Draven. Ma la protagonista di Noi è Adelchi, non Ermengarda. E, nonostante il volgo disperso un nome riesce, in extremis, ad averlo, alla fine per noi, per tutti noi, non resta che far torto, o patirlo.
Speciale “The Mule” III – Il ladro di didascalie
È come se Nick Schenk (già sceneggiatore di Gran Torino) si fosse dimenticato una delle regole fondamentali del suo mestiere: il sottotesto. The Mule è ipertestuale, ai limiti della prevedibilità, suggerendo un arco narrativo stancamente intuibile fin dal prologo-antefatto. Gli unici guizzi di scrittura ce li regala Eastwood, con i suoi commenti caustici disseminati qua e là in un film ampiamente sfrondabile nel minutaggio (a partire dalla festa nella villa di Andy Garcia). Perché il blocco centrale di The Mule è una lunga sequenza episodica che, raccontata la prima puntata, si ripete pressoché uguale viaggio dopo viaggio, consegna dopo consegna.
“Vice”, l’esca ce la siamo divorata tutti
Vice fa così: ti prende a schiaffi con il sorriso, lasciandoti un fastidio alle gote impossibile da ignorare. Il film non inizia e non finisce davvero, perché in quella realtà ci siamo ancora dentro. Ecco allora che tutto diventa un patchwork pop, patinato e roboante, mentre fuori c’è la morte. McKay sintetizza la formula per il biopic perfetto, per il suo biopic, tornando addirittura a Lucrezio: mescolando l’utile al dolce, sia per lo spettatore abituato a Michael Moore che riconosce Condoleezza Rice o Colin Powell, sia per chi a Fahrenheit preferisce il Fernet. Non ci viene lasciato scampo, giustamente. Vice apre l’ennesimo squarcio nella politica americana, tirandoci attraverso la tela per inorridire di fronte al ghigno che si nasconde in piena vista. Perché a Christian Bale basta solo quello per consegnarci il suo Dick Cheney: un sorriso che si taglia come una crepa nel granito.