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Ripensando “Fino all’ultimo respiro”: la rivoluzione formale
Ripensiamo a una delle scene più analizzate di Fino all’ultimo respiro, in cui il rapporto causa/effetto che caratterizzava i personaggi nella narrazione classica si dissolve. La sequenza è ambientata in una camera dell’hotel de Suède, dove Michel e Patricia avviano un discorso che va a toccare amore, filosofia e letteratura. Gli scambi tra i due non sono tradotti per mezzo del tradizionale campo e controcampo, ma attraverso inquadrature in cui Jean Seberg e Jean-Paul Belmondo appaiono simultaneamente dalla stessa prospettiva. Godard incoraggiò gli attori ad estraniarsi dai personaggi e liberarsi degli artefici, così da rendere la scena estremamente spontanea. Nonostante lo spettatore sia consapevole di assistere ad un film – Godard d’altronde lo ricorda continuamente – allo stesso modo la purezza delle azioni di Belmondo e Seberg li fa sembrare protagonisti di un documentario sulla loro vita.
La magia del cinema secondo Wes Anderson e Tilda Swinton
Chi meglio di Wes Anderson e Tilda Swinton potrebbe raccontare la magia del cinema? Celebri per l’unicità ed eccentricità che li caratterizza, i due, da autentici cinefili, hanno guidato alcuni giorni fa il pubblico del British Film Institute attraverso titoli insoliti, partendo dal fiammeggiante universo di Micheal Powell ed Emeric Pressburger. Fondatori della casa di produzione Archers e attivi principalmente tra gli anni ’40 e ’50, Powell e Pressburger realizzarono racconti dominati da toni fantastici e romantici, distaccandosi dal forzato realismo tipico del cinema britannico di quel periodo. Dalla nostra corrispondente a Londra.
“Piccole donne” – Perché sì
La Gerwig propone una versione moderna del romanzo servendosi di una narrazione alternata tra passato e presente; questo espediente conferisce una rinnovata dinamicità alla storia, identificabile principalmente nella prima parte della pellicola. La messa in scena di eventi passati è caratterizzata da una contagiosa vitalità e il potere comunicativo delle protagoniste è tale da fuoriuscire dai limiti imposti dallo schermo. A questo si oppone un presente dai toni più sommessi e pacati. A rafforzare questa dualità contribuisce anche l’uso dei colori, accesi e brillanti nei flashback e più cupi quando le sorelle March si separano. Il contrasto sembra voler simboleggiare il rapporto antitetico tra adolescenza ed età adulta: se a caratterizzare la gioventù è un certo idealismo, crescere comporta un abbandono delle illusioni a cui segue una presa di coscienza della realtà.
Noah Baumbach parla al British Film Institute di Londra
Dalla nostra corrispondente a Londra. Noah Baumbach è apparso sul palco del British Film Institute di Londra, dove ha parlato della genesi della pellicola, del suo rapporto con gli attori e dell’importanza dei musical nella diegesi. “Cercavo un modo per ritrarre una storia d’amore e volevo, allo stesso tempo, esplorare il processo del divorzio. Raccontare di un matrimonio che si disintegrava mi dava l’opportunità di parlare del matrimonio stesso” ha spiegato il regista. Nel film, Baumbach non giudica i due protagonisti, rimanendo imparziale. Il vero nemico in Storia di un matrimonio è il sistema giuridico americano: “Per me è stato importante che gli avvocati non risultassero cattivi, sono professionisti di un sistema che a volte non sembra avere nessun tipo di razionalità”.
“Portrait de la jeune fille en feu” di Céline Sciamma al BFI London Film Festival 2019
Ad averci fatto avvicinare al cinema è anche la possibilità di osservare storie e vite che scorrono sullo schermo. Chi sono gli spettatori, se non inguaribili voyeur che accettano l’invito di immergersi nelle vite degli altri? È questa funzione voyeuristica del cinema che Céline Sciamma porta all’estremo in Portrait de la jeune fille en feu. La macchina da presa della Sciamma si concentra perpetuamente sulle sue protagoniste, studiandole dettagliatamente e invitando lo spettatore a fare lo stesso. Portrait de la jeune fille en feu è un lavoro di ipnotica espressività, è un film dalla potenza straordinaria, che rapisce fin dalle prime immagini e rilascia lo spettatore soltanto con la sua struggente conclusione.
“Jojo Rabbit” e l’ironia dell’odio
Se è vero che Waititi non si espone troppo, rimanendo in territorio sicuro (il suo è pur sempre un film distribuito dalla Disney), Jojo Rabbit funziona proprio perché non aspira a moralismi forzati, ma a qualcosa di molto più significativo: renderci consapevoli che l’odio è un sentimento difficile da estirpare e che se non combattuto può portare a conseguenze terrificanti. E visti i tempi di avversità all’inclusione in cui viviamo, dove la violenza e l’intolleranza verso il diverso imperversano ovunque, Jojo Rabbit diventa un film necessario, perché affronta temi che sono e continueranno ad essere rilevanti; poco importa se il linguaggio utilizzato è quello che va a toccare le corde giuste per giungere al grande pubblico. Perché il suo fine è proprio questo.
“Matthias et Maxime” di Xavier Dolan al BFI London Film Festival 2019
Dolan ripropone i temi caratteristici del suo cinema, come la difficile relazione tra madre e figlio e la scoperta/accettazione della propria sessualità. Il suo è un film umano e sincero, che trasporta lo spettatore dentro alle emozioni vissute dai protagonisti. Questa volta Dolan preferisce immagini fortemente espressive ai lunghi dialoghi che caratterizzavano invece È solo la fine del mondo. Qui, il regista colloca i dialoghi nelle scene di gruppo, mentre riserva ai due protagonisti sequenze eleganti che lasciano intendere i loro stati d’animo. Ne è esempio la notevole scena in cui Matthias, a seguito del bacio con Maxime, si sfoga andando a nuotare. Ad un dialogo esplicativo tra i due, Dolan preferisce immagini silenziose, in cui l’unico suono percepibile è la musica extradiegetica.
“Bad Education” di Cory Finley al BFI London Film Festival 2019
Traendo ispirazione da una storia vera, il regista Cory Finley realizza una pellicola lineare che rispetta i canoni del film d’inchiesta e che, pur non sorprendendo, riesce ad intrattenere. Il film è retto da un magnifico Hugh Jackman, mai visto in un ruolo così sfaccettato, impassibile di fronte all’inoppugnabile verità, che non abbandona la falsa uniforme del perbenismo neanche quando si trova dietro le sbarre. Presentato in prima mondiale al Toronto Film Festival e ora sugli schermi del London Film Festival, Bad Education è un’opera che, denunciando i falli del sistema e la corruzione degli individui, ricorda ancora una volta come ogni uomo rivestito di autorità sia destinato a fallire perché non più in grado di controllare l’unica forma di potere realmente importante: quella esercitata su se stessi.
“Anima” di Paul Thomas Anderson e la distopia musicale
La messa in immagini di un brano musicale è un processo che esiste già da decadi: molti registi di cinema hanno iniziato la propria carriera nel mondo dei videoclip o vi hanno fatto incursione: si pensi a David Fincher, Spike Jonze e Michel Gondry. Recentemente però, abbiamo assistito ad una nuova tendenza: non più videoclip realizzati per meri fini promozionali, ma piuttosto, veri e propri short-film, in cui il connubio tra cinema e musica diventa indispensabile. È il caso di I Am Easy to Find diretto da Mike Mills per l’omonimo album dei National e di ANIMA di Paul Thomas Anderson, che va ad accompagnare il terzo lavoro solista di Thom Yorke. Anderson era già entrato in contatto con le sonorità dei Radiohead dirigendo i video di tre dei loro brani: quello tra Anderson e la band di Yorke era un sodalizio già consolidato.
“Rolling Thunder Revue” di Martin Scorsese e il camouflage del documentario
Proprio per contribuire al velo di mistero che da sempre avvolge il menestrello di Duluth, Scorsese camuffa la realtà, introducendo nella storia personaggi inventati: Van Dorp, il regista che tenta di realizzare un film sul tour non è mai esistito e la testimonianza di Sharon Stone è pura fantasia. Il produttore del tour, anch’esso un personaggio fittizio, diventa invece il villain di turno, che preferirebbe trasformare il Rolling Thunder Revue in una macchina da soldi, piuttosto che in un’esperienza intima e riconciliante. Il tour di Dylan – come è lui stesso a dichiarare sul finale – fu finanziariamente disastroso. Ma dal punto di vista umano divenne un trionfo. Il musicista donò ai giovani quello che cercavano: un senso di comunità e di unione nel quale ritrovare se stessi.
“Rocketman” e il biopic musicale
Il regista Dexter Fletcher, già dietro alla macchina da presa in Bohemian Rhapsody, abbandona i canoni classici del film biografico a favore di un racconto che vira verso l’introspezione, tentando di catturare il vero Elton John, quello nascosto dietro ai glitter e ai costumi sfavillanti. In questo senso la pellicola prende vita attraverso varie forme narrative: in alcune sequenze, come quella in cui compare il brano Saturday Night’s Allright for Fighting, lo stile si avvicina ad uno staging appartenente alla tradizione del musical theatre. La stessa tendenza è riscontrabile all’inizio della pellicola, quando I Want Love diventa un brano corale in cui i membri della famiglia Dwight e il piccolo Reginald esprimono insoddisfazioni e inquietudini. La sequenza ricorda, nei toni e nella messa in scena, la versione teatrale del film Billy Elliott e la connessione non appare casuale, dato che il musical era sorretto da brani scritti da Elton John.