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“Bestiari, Erbari, Lapidari” e il catalogo come comprensione umana
Bestiari, Erbari, Lapidari è un film che si pone da subito come un elenco: un titolo che è già un indice, un film che è già consapevolmente un catalogo. Massimo D’Anolfi e Martina Parenti sanno che si può partire solo con delle distinzioni precise. Se nel loro precedente Guerra e pace l’indice era temporale (passato remoto, passato prossimo, presente e futuro) qui è tipologico: Bestiari, Erbari, Lapidari. Una tautologia. Tre soggetti che rimandano a tre sfere, tre universi, tre dimensioni precise… universali, ma specifiche: animali, vegetali e minerali.
“Vermiglio” alle radici del cinema olmiano
Maura Delpero attinge alle proprie radici per realizzare un film che vive una zona di mezzo tra un’epica di paese e un racconto di formazione famigliare. Il punto di partenza evidente è il ritratto etnografico dell’Olmi de L’albero degli zoccoli e alla funzione di dedizione a un mondo ormai perduto fatto di usanze, costumi, dialetti e al lavoro con gli attori non professionisti, aggiunge uno sguardo più ravvicinato sul piano intimo e sentimentale.
“Queer” tra idea di adattamento e idea di cinema
Il “disincarnato” di Queer fa coesistere libertà di movimento (fuga) con il vincolo intimo (specchio), l’emancipazione visiva con il nodo personale: la teoria con l’intimità. La finzione diventa manifesta simulazione (di sé), l’esperienza disincarnata è contemporaneamente fuoriuscita e ingresso, sia fluttuare nello spazio lontano che fondersi dentro a un corpo vicino, osservarsi o sapersi osservati da sé stessi (come scrivere o essere scritti).
“Maria” tra la voce e il corpo
Con Maria, Pablo Larraín prosegue un progetto cinematografico ormai evidente ma pieno di deviazioni e forse non così dichiarato quanto sembra. Prosegue la sua “missione biografica femminile” che trova in Jackie e Spencer le due massime espressioni: sono biopic svuotati e rielaborati a partire dai corpi (vedi anche Ema), intitolati con il meno storicizzato tra cognome e nome della protagonista (già dichiarazione d’intenti), incentrati su figure di potere come gabbie e maledizioni.
“Invelle” in nessun posto in particolare
Invelle, il primo lungometraggio animato di Simone Massi – noto ai più per i suoi cortometraggi e al festival di Venezia per manifesti e sigle – sembra immergersi in un subconscio italiano fatto di soprusi e violenze, di rabbia e di vendette. E chiedersi: cosa ci faceva paura? Cosa ci faceva arrabbiare? Cosa ci spingeva alla violenza? Al dolore, agli addii, alle miserie? Invelle è il non luogo della provincia italiana, il “nessun posto in particolare”.
Le immagini sopra tutto. Intorno ad alcuni film contemporanei
Sono solo immagini. Non nel senso che sono semplicemente immagini – ovvero che c’è un mondo là fuori che esiste indipendentemente da esse – ma nel senso che sono soprattutto immagini. Se il cinema si è fatto teoria, in questi mesi, lo ha fatto seguendo questa idea, facendo emergere lo statuto dell’immagine non come qualcosa che vale la pena rincorrere nonostante un contesto sfavorevole o addirittura irrappresentabile, ma immagini che si producono e rincorrono indipendentemente dal contesto.
“Il vento soffia dove vuole” e lo stesso fa il cinema
Marco Righi mette in dialogo la storia di un lutto e di una fede, mentre il resto lo lascia a una spaesante attesa. Poi prende l’atteggiamento sinfonico e naturalistico di certo cinema italiano che va da Piavoli a Frammartino, passa dalla contemplatività emergente del cinema internazionale degli ultimi vent’anni, per arrivare con convinzione al trascendente nel cinema, quello di Schrader, attorno a cui fonda tutta l’ossatura di un film fatto di distanze oltre che di attese, costruito su un approccio fisico, materiale, immanente.
“La zona d’interesse” speciale IV – La posizione dell’osservatore
L’ultimo film di Jonathan Glazer è davvero una riflessione sull’etica dello sguardo? Le immagini vivono di quella che Michele Guerra, parlando proprio delle immagini della Shoah, chiamava pressione del fuoricampo? Forse sì, ma proviamo qui a cambiare il punto. Forse questo film ha meno a che fare con lo sguardo e più con il concetto di posizionamento. Forse non si pone la questione di cosa e come guardare, ma di cosa e come posizionare. Più che un’osservazione, La zona d’interesse sembra un rilievo topografico.
“Enea” che prima afferma e poi nega se stesso
Castellitto, insieme ad altri come i fratelli D’Innoncenzo, sembra che stia mettendo in pratica delle prove, procedendo in modo empirico, affermando e poi negando, prima a sé stesso, poi a noi, chiedendoci qualcosa in più, di seguirlo, di andare oltre. Dovremmo capire però – lo capiremo sicuramente in futuro – se questi tentativi porteranno da qualche parte o se saranno proprio la cifra stessa di questi lavori all’insegna di un cinema digitale frammentato.
“La chimera” e l’insistenza delle rovine
I tombaroli di Alice Rohrwacher cercano l’Etruria e non l’Italia, vogliono gli oggetti, i soldi, il riscatto, eppure pedinandoli il film scava gli strati, non alla ricerca di linee temporali, ma dei punti di insorgenza. Non l’origine, ma la nascita delle condizioni. Non la cronologia, ma il “tempo profondo”. In questo senso l’archeologia sembra una futurologia, una ricerca dei futuri perduti, di quelli non scelti. La cultura etrusca come società a genealogia femminile, matriarcale.
“El Conde” nel vampirismo della Storia
Larraín, nella sua satira, con una buona intuizione, racconta come oggi l’eredità politica sia sempre coscientemente slegata a una corrispettiva responsabilità politica. Per quanto evidente e servita, la metafora rimane precisa. E per storpiare un’abusata frase di Fredric Jameson – stando a questo film e all’eredità dei personaggi trattati, alla società contemporanea, al neoliberismo e alla fine della Storia – è ancora molto più facile immaginare la fine di un vampiro che la fine del capitalismo.
“Enea” che afferma e poi nega se stesso
Castellitto, insieme ad altri come i fratelli D’Innoncenzo, sembra che stia mettendo in pratica delle prove, procedendo in modo empirico, affermando e poi negando, prima a sé stesso, poi a noi, chiedendoci qualcosa in più, di seguirlo, di andare oltre. Dovremmo capire però – lo capiremo sicuramente in futuro – se questi tentativi porteranno da qualche parte o se saranno proprio la cifra stessa di questi lavori all’insegna di un cinema digitale frammentato.
“Evil Does Not Exist” tra pace e conflitto
Il cinema di Hamaguchi, quello che si manifesta nei silenzi, nelle dispersioni e nelle deviazioni, quello che trova la sua essenza nei galleggiamenti lievi, c’è tutto. Così come i suoi paradossi. Se Drive My Car, un film quasi del tutto fatto di dialoghi, si fondava attorno al primato del gesto sulla parola, in Evil Does Not Exist gli incessanti movimenti fondano un primato della stasi sul movimento, primato della conservazione sul progresso, della difesa sull’attacco, della natura sul resto.
“Aggro Drift” come conflitto estetico oltre il cinema
Aggro Dr1ft è un lavoro di linguaggio e di media, di visualizzazione digitale. Un luogo di conflitto estetico. Post-cinema o meno è indispensabile andarci, seguirlo e vederlo. Aggro Dr1ft non è neanche un film, ma un’immersione psichedelica in una Miami crepuscolare abitata da assassini. Volendo evidenziare un discorso sui dispositivi, sui supporti visivi e sulla cultura visuale contemporanea, Korine prova ad andare oltre il cinema passando all’immaginario videoludico.
Senza un altrove. Una lettura trasversale dell’ultimo cinema d’animazione Disney/Pixar
A volte l’altrove è circoscritto prima e dopo il film (Elemental), a volte è proprio un tema, un orizzonte ambito ma impossibile da raggiungere (Lightyear, Strange World), a volte non è proprio contemplato (Encanto, Red). L’avventura è limitata da ostacoli tecnici (l’astronave di Lightyear), geologici (le montagne di Strange World), sociali (i confini di sicurezza di Encanto). Non si può andare oltre. Cartografia del recente cinema d’animazione.
“Macario” di un candore surreale
Se oggi, quando parliamo di cinema messicano, pensiamo al famoso trio composto da Cuarón, Iñárritu e Del Toro in parte è anche grazie a quell’ideale “passaggio di dogana” che gli è stato concesso e celebrato negli Stati Uniti con le rispettive nomination e vittore dei premi Oscar. Bisogna però sapere che il primo ad aver attraversato questo ideale ponte “cine-geografico” è stato proprio Roberto Gavaldón: il primo ad aver portato, nel 1961, un film messicano tra i nominati all’Oscar a miglior film straniero (nella cinquina insieme a nomi come Clouzot, Pontecorvo e Bergman) proprio con il suo Macario.
“Il grido” di aiuto ai margini del mito
La traiettoria del film potrebbe prevedere il protagonista come un nucleo e le vicende (ovvero i vari personaggi secondari) come episodi che gli orbitano attorno, mentre invece è proprio il contrario: ne Il grido si assiste a un satellite e a tanti cambi di orbita. Ci sono movimento e velocità (gare di pugilato e di motoscafi, locali da ballo, fabbriche che svettano come relitti della modernità e collettivi movimenti di protesta) eppure vengono sempre rifiutati, stanno in profondità, alle spalle della solitudine e del silenzio.
“Il dono” e i primi passi nel cinema del reale
A rivedere oggi Il dono sembra quasi di assistere ai primi passi di quello che è stato uno dei fenomeni (o delle avanguardie o delle tendenze, che dir si voglia) più segnanti del cinema italiano del nuovo millennio, di quella riscoperta dell’Italia, di quella rielaborazione dello sguardo documentario che si riconosceva (e in parte ancora oggi si riconosce) nel termine “cinema del reale”, quello delle pratiche documentarie più attente e consapevoli dell’immagine, quelle che sperimentano nuove strategie di autenticazione, in particolare attraverso una ricerca costante di nuovi intrecci tra la natura finzionale e quella documentale.
Il paesaggio e il fucile. “Banditi a Orgosolo” tra piatta esistenza e burrascosa tragedia.
Banditi a Orgosolo sembra neorealismo in purezza (la stessa sequenza di eventi, così come l’organizzazione dei personaggi, sembra tanto guardare a Ladri di biciclette, finale compreso), eppure parla anche di altro. Parte dal vero, dall’esplorazione etnografica e dal lavoro con il territorio (gli attori non professionisti per esempio), per arrivare a un regime di finzione che sembra porsi quasi come un sistema di tutela per il paese.
“Beau ha paura” in un’odissea con una vita in mezzo
Beau ha paura è un’odissea con una vita in mezzo (una nascita all’inizio e una morte alla fine). Il punto A è l’appartamento di Beau e il punto B è la casa della madre. Nel tragitto ci sono un’altra casa e un bosco. Poi dei senzatetto minacciosi, genitori apprensivi e compagnie teatrali espansive. I luoghi sono suddivisi con ordine e ritmo, il resto è un labirinto in cui tutto riconduce alla madre, ma rimanda sempre al protagonista.