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“Blues in the Night” e la musica come costruzione identitaria

Storia delle disavventure di un gruppo di jazzisti e di come una femme fatale porti il pianista Jigger Pine (Richard Whorf) a una crisi musicale e d’identità tra le notti fumose di un locale gestito da un criminale, Blues in the Night (1941) di Anatole Litvak è il campo audiovisivo di una discussione identitaria: come la musica blues e il movimento jazz si fanno portavoce di una necessità espressiva, di un bisogno profondo dell’individuo di sentirsi libero e rappresentato. Ad ogni costo.

“La città del peccato” dal noir alla tragedia

Tutti gli indizi ci porterebbero a definire La città del peccato un puro noir: è prodotto dalla Warner Bros, la “casa” del genere; la grande città, New York, si fa specchio di una prova morale durissima, dove l’individualismo di chi sogna equivale alla punizione di chi osa troppo; ha inoltre come protagonista una delle icone massime del noir, James Cagney. Se questi indizi sono necessari non sono però sufficienti: il soggetto di La città del peccato si fa infatti, nelle mani di Litvak, una tragedia mélo dalla morale ambigua, ricca molto più di sentimenti che di azione, di impulsi emotivi e di luci della ribalta che di buie geografie urbane.

Il western di Hugo Fregonese e gli abiti dell’eroe

Se dovessimo immaginarci un Manifesto programmatico del cinema di Hugo Fregonese, uno dei punti principali sarebbe il seguente: il passato e la morte sono la stessa cosa – e da tale cospirazione non si può mai fuggire. Cineasta argentino adottato da Hollywood nel 1950, regista vagabondo e irrequieto non a caso sempre a suo agio nell’ibridazione dei generi, nel corso del suo intervallo statunitense Fregonese ha misurato il suo nichilismo con l’immaginario del West, dando vita a personaggi dannati che paiono essere liberi ma che in realtà si trovano sempre di fronte a due sole scelte: la morte fisica o la morte identitaria.

“Licorice Pizza” speciale III – L’ottimismo cinematografico di Paul Thomas Anderson

Licorice Pizza trova quel senso del cinema sublime, di singoli attimi che fanno esplodere mondi di sentimenti; un cinema di semplicità e fermezza dove i gloriosi piani sequenza ci sono ancora ma sono uno strumento tra i tanti con cui fare respirare l’intensità degli interpreti, costante imprescindibile della sua filmografia. Quella materia nascosta dietro il visibile è allora una profonda nostalgia che vive e respira attraverso i suoi personaggi. Con un inedito ottimismo di fondo Paul Thomas Anderson sigilla questi sentimenti con un abbraccio, rassicurandoci del fatto che nulla, per chi crede alle illusioni del cinema, potrà mai andare storto.

“Un evaso ha bussato alla porta” e lo spirito del cinema sociale americano

George Stevens raccoglie tutto con la naturalezza e l’apparente semplicità che solo la Hollywood classica sa regalare, in un cinema dove oltre la superficie e oltre la risata risiede una profondità di pensiero spiazzante. Stevens non era un radicale ma era estremamente patriottico nel senso migliore del termine: convinto che lo spirito degli Stati Uniti e che il sogno a stelle e strisce risiedesse in primis nella buona volontà delle persone. Una volontà che non è innata ma che può e deve essere costruita nonostante tutto. In The Talk of the Town c’è tutto questo, e sebbene il triangolo amoroso sembri rubare la scena, come un po’ vuole la regola, è certamente l’aspetto socio-politico ciò che davvero rimane.

“Un posto al sole” e la promessa dell’immortalità

Dopo 19 mesi di montaggio e sette preview, George Stevens presentò finalmente il suo capolavoro A Place in The Sun nel 1951 e fece incetta di ben sei statuette ai premi Oscar. Ma se è vero che i premi sono figli del loro tempo ed è solo la prova della Storia ciò che realmente conta, si può certamente dire che A Place in The Sun è riuscito dopo esattamente settant’anni a rimanere un film indimenticabile. E probabilmente lo sarà ancora a lungo. L’eternità George Stevens se l’è guadagnata in tanti modi, ma in questa storia di proletari che aspirano alla società alto-borghese, fallendo, e di alto-borghesi che provano a scendere dal piedistallo ma che rimangono alieni e inarrivabili, Stevens è riuscito a infondere in una una tragedia tetra e straziante una delicatezza e un’umanità irripetibile.

“Perdonami se ho peccato” e l’ironia dentro il mélo

George Stevens ci immerge in un mondo emotivo di tensioni irrisolte, dove l’alcol è sia l’antagonista che il protagonista assoluto, un nettare che fa da aggregatore sociale e che scorre a fiumi davanti agli occhi di Miller e Jenny, che devono resistere alla tentazione. Siamo al limite della geografia dell’anima del noir classico, in spazi che se non sono allucinati sono comunque piena espressione estetizzata di un sentimento: tra ascensori “ingabbiati”, scale e l’angusta sala museale in cui osservare sarcofagi egizi, i protagonisti si muovono secondo un raggio d’azione limitato, hanno una smania vitale incredibile ma l’impossibilità di respirare davvero l’aria fresca della libertà.

Il viaggio nel cinema di George Stevens

Furono una vita, un mestiere e una vocazione, quelli di Stevens, dove la parola regia coincise sempre con esistenza. La filmografia di George Stevens è un lascito dal valore inestimabile, testimonianza del tempo e della storia oltre che di un’epoca del Grande cinema e che George Stevens: a Filmmakers Journey, ci restituisce con esattamente l’amore profondo di chi guarda al cinema pensando che, nei suoi momenti più alti, sia davvero l’arte più potente di tutte. E George Stevens quell’arte la conosceva benissimo. Uno spirito libero e un regista attento, sempre centrato, la cui capacità incredibile era quella rara di saper calare lo spettatore dentro la scena, non semplicemente farlo assistere.

“Wife of a Spy” a Venezia 2020

Maestro del J-Horror di inizio anni duemila (Kairo, Loft, Castigo), autore di potenti storie crime (The Cure), ma anche regista di acclamati drammi d’autore (Tokyo Sonata), fantascienza (Before We Vanish), thriller (Seventh Code). Kiyoshi Kurosawa è una vera colonna portante del cinema giapponese, e in quanto tale l’aspettativa era alta rispetto al suo Wife of a Spy, thriller spionistico ambientato nella provincia di Kobe negli anni quaranta del Novecento. Perché sul genere, per lui, sembrava fin troppo facile poter giocare. In Wife of a Spy, invece, non solo “la grande storia” rimane irrimediabilmente sullo sfondo, ma anche la parabola dei personaggi non riesce a convincere.

“Cari compagni!” senza più certezze

Konchalovsky riesce qui nel difficile compito della riduzione di ciò che è complesso, riuscendo però nel contempo a restituirne un quadro esaustivo e potente: procedendo ritmato e veloce come un treno, Cari compagni! non lascia un attimo di respiro e come strattonando lo spettatore per un braccio lo trascina con sé nella sua ricerca disperata. E se nella rappresentazione delle masse Konchalovsky decide di rimanere a debita distanza, rinunciando alla forza attrazionale dei volti, anche il ritratto di Lyudmila ha il contorno del campo lungo, ed è sempre al centro ma non è mai davvero vicina: isolata dallo sguardo del regista allo stesso modo in cui è abbandonata dai suoi “tovarish”.

“Salvatore: Shoemaker of Dreams” e la follia creativa di Ferragamo

Nel ripercorrere la storia di Salvatore Ferragamo, Luca Guadagnino sceglie di parlare sì dell’uomo, della sua biografia, ne tratteggia un’agiografia a tratti avventurosa e a tratti privata, ma tradisce il loro interesse verso questa figura soprattutto nel raccontare il suo rapporto con la storia del cinema. Nel periodo infatti in cui questo visse a Santa Barbara, nacquero e poi fiorirono i primi teatri di posa, le prime case di produzione, e soprattutto i primi divi. Ma è nell’uso delle immagini d’archivio, delle tante interviste non solo ai familiari (che tramandano, giustamente, la vulgata interna) ma proprio agli storici e agli studiosi del cinema che effettivamente esplode, come un’intuizione, la profonda relazione tra moda e divismo, estetica e narrazione

“Night in Paradise” a Venezia 2020

Forse è arrivato il momento che Park Hoon-jung sia inserito nel pantheon dei grandi autori contemporanei: perché con Night in Paradise ci ricorda come il cinema sudcoreano non abbia paura di niente. Non ha paura del dolore, né della tragedia; non ha paura della responsabilità etica dell’eroe, libero di essere moralmente deprecabile e insieme appassionante, appunto un eroe positivo; né di discutere i ruoli di genere, portando in scena figure femminili fortissime (come aveva fatto nel suo primo film, The Witch part 1). Ma soprattutto non ha mai paura di contaminare i generi, usando un gangster movie per lavorare sul melodramma e insieme sul comico.

Henry Fonda: in nome dell’individuo

Se si va oltre la retorica dei discorsi alle folle e si osserva il vero motivo che lo spinge ad agire, Fonda non è qui l’ideale american hero pronto a lottare per ciò in cui crede ad ogni costo, ma un uomo che è o sconvolto dagli eventi che gli capitano (Sono Innocente, Furore) oppure è indignato per l’assenza, nella sua personale quotidianità (L’uomo questo dominatore) o all’interno di una comunità (Alba di gloria) della facoltà di auto-affermarsi. Ma è comunque una questione di invasione di campo, a cui si deve per forza rispondere: l’ingiustizia tocca la sicurezza del proprio vivere, sconvolge le abitudini e mette in crisi le facoltà liberali. E allora ecco la lotta del singolo per sé stesso. O al massimo, in nome del singolo. Negli anni in cui il cinema hollywoodiano lotta contro gli effetti della Grande Depressione, Fonda risponde con ruoli in cui è l’affermazione della dignità del singolo a guidarne ogni gesto: capace di ritratti paranoici, sfumature comico-ironiche e fermezza drammatica, si fa in questi anni paladino dell’individualismo, della lotta necessaria contro una società che di quei valori avrebbe dovuto farsi promotrice.

Losey/Pinter, un’inquieta alterità

Quando lo scrittore e drammaturgo inglese Harold Pinter si mette alla scrivania all’inizio degli anni Sessanta per scrivere la sceneggiatura de Il servo è la prima volta che si confronta con una storia non sua da adattare per il grande schermo. L’unica sua altra esperienza come sceneggiatore è, al momento, l’adattamento di Il guardiano (1960), la tragicommedia che lo ha appena consacrato come autore teatrale su entrambe le sponde dell’Atlantico. Il regista del film sarà l’americano Joseph Losey, un po’ più vecchio di lui, ma come lui un uomo di teatro, formatosi nella vibrante New York degli anni Trenta dei fremiti del New Deal, tra critica teatrale e drammaturgia militante, luogo dell’amicizia e della collaborazione con Charles Laughton e Bertolt Brecht.

“Il terzo omicidio” e la verità irraggiungibile

Allineandosi al corpus dei suoi film più recenti, che inquadrano il nucleo familiare all’interno di un disagio sociale più ampio – soprattutto in Ritratto di famiglia con tempesta (2016) e Un affare di famiglia (2018), e non solo per il titolo – Il terzo omicidio sembra voler paragonare l’incombenza dei legami parentali a un fardello da cui non ci si può liberare, soprattutto nella misura in cui l’albero genealogico si fa portatore di una colpa. E, come spesso accade nei film di Kore’eda, la colpa è del padre – figura assente ma determinante nel causare isterie e disagi dei personaggi che ne subiscono le azioni passate.

Il lato tragico della commedia – Speciale “Joker” II

“Pensavo che la mia vita fosse una tragedia, ma mi accorgo solo ora che è una commedia”: questa frase già iconica racchiude allora perfettamente il senso del film, il cui livello di complessità è innalzato da una ulteriore variabile di articolazione del senso: la televisione. È infatti solo attraverso lo schermo televisivo che può avvenire la più totale sublimazione e affermazione del personaggio, che se nelle premesse esiste soltanto quando percepito dagli altri, non può fare a meno di usare il luogo principe dell’articolazione del discorso di verità come trampolino di lancio per la sua nuova identità. Consapevole di sé e riconosciuto dagli altri, Joker è ora completo e può finalmente emanciparsi da ogni necessità percettiva, saturo già com’è di significati e implicazioni politiche. 

I western di Henry King e la crisi del sogno americano

Se si dovesse considerare la carriera di Henry King in termini solamente quantitativi,  sarebbe da record. Tuttavia, all’interno di questa vastissima produzione  i campi di prova dell’american director nei confronti del western sono stati relativamente pochi. Strano, verrebbe da dire, poiché la qualifica di King di regista-feticcio dello studio system e della golden age del cinema americano implicherebbe in qualche modo un più largo confronto con quello che André Bazin chiamava “il genere americano per eccellenza”. Genere attraverso il quale il cinema americano, più che in qualsiasi altro, ha definito il suo destino storico, il suo mito fondativo, delegando alle vicende del West una sorta di missione storica di definizione dell’ethos americano, che era carente di una grande tradizione letteraria quale invece quella europea o orientale. Spesso descritto come narratore del grande sogno americano, King ha saputo mettere in discussione quel mito, rappresentando eroi outsider che si misurano con le aspettative di una più o meno piccola comunità.