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“Una storia d’amore e di desiderio” tra eros ed emancipazione
Sono molti gli elementi che congiungono il primo, meraviglioso film da sceneggiatrice e regista della tunisina Leyla Bouzid con il suo secondo lungometraggio, Una storia d’amore e di desiderio. Due coming of age, due racconti di emancipazione, due percorsi di scoperta dell’eros e dei turbamenti che ad esso si associano. Partendo dall’intimità di un canonico racconto di crescita, la grande capacità della Bouzid risiede sempre nell’ampliare la visione abbracciando più livelli e intrecciando vari elementi narrativi per mostrarci la strettissima correlazione tra il piano soggettivo e quello sociale e culturale.
“The Falls” e la parabola dell’isolamento
Dietro la narrazione canonica dei racconti di formazione e coming of age dei protagonisti, Chung Mong-hong indaga quindi le dinamiche e i rapporti familiari intrecciando, in The Falls, il proprio linguaggio filmico e narrativo con un’ottica allucinatoria, onirica, cogliendo in tal modo in maniera più acuta e profonda l’elemento perturbante che invade l’animo dei protagonisti nel constatare che chi ci è più vicino ci è diventato alieno e che la separazione e il distacco hanno avvelenato i rapporti apparentemente più intimi e affettivi e hanno avvolto la stessa interiorità dei personaggi.
“Paradise – una nuova vita” come parabola della ricomposizione
Fin dalle prime scene Paradise – una nuova vita si configura come un racconto surreale e (forse eccessivamente) naïve, tramite la rappresentazione dell’estraniamento e della solitudine del protagonista in una terra sconosciuta, per poi proseguire con le situazioni paradossali che accompagneranno l’incontro con il nuovo ospite dell’hotel, anch’esso proveniente dalla Sicilia. L’elemento fiabesco del racconto è sicuramente voluto e sostenuto dai tratti infantili e dall’interpretazione dell’attore protagonista Vincenzo Nemolato. Unitamente con le movenze contenute del co protagonista Giovanni Calcagno, i due reggono tutto il film come un duo comico e il loro rapporto passa dalla diffidenza al misunderstanding fino ad arrivare all’affettività.
“A Rifle and a Bag” e il peso delle scelte collettive
Diretto dal NoCut Film Collective, gruppo transnazionale composto da tre registe e produttrici provenienti dall’Italia, dall’India e dalla Romania, il documentario A Rifle and a Bag ci mostra la vita di Somi e suo marito Sukhram, ex combattenti nella guerriglia maoista dei Naxaliti, che dagli anni ‘60 lotta per i diritti delle comunità tribali dell’India. Cosa rimane dopo aver combattuto una battaglia persa? Per quanto ancora i figli sconteranno quelle che per le istituzioni sono le colpe dei padri? Senza pretendere di dare risposte a tali quesiti, le registe ci mostrano soltanto l’evolversi degli eventi.
“Enorme” nel cinema di Sophie Letourneur
Quello di Sophie Letourneur è un cinema che non teme di confrontarsi con gli stereotipi legati al cosiddetto binarismo di genere, e che, sorprendentemente, non si fa remore neanche a mostrare, con umorismo e sfrontatezza, elementi legati al femminile che vengono di volta in volta problematizzati con leggerezza e gusto per il paradosso o sottolineati con giocosa autoironia. Se in Enorme mette in mostra la maternità, decostruendone il mito e il luogo comune piuttosto sessista legato al suo aspetto “naturale”, anche nei titoli precedenti Letourneur si rifiutava di confrontarsi utilizzando toni ombelicali e intellettualistici con aspetti delicati della propria esistenza e della vita di una donna.
“Harold e Maude” cinquant’anni dopo
Il secondo lungometraggio diretto da Hal Hashby, il più hippie tra i registi della New Hollywood, è un riconoscibilissimo figlio dello spirito ribellistico della controcultura dell’epoca, che viene però rappresentata con grazia, leggerezza e umorismo, creando una parabola che parte dal malessere adolescenziale del protagonista (rappresentato comunque in chiave satirica e con gusto per il grottesco) e che porta poi all’apertura verso la vita, per questo peculiare coming of age. Il film ribalta la rappresentazione di Lolita per mostrare una relazione anti stereotipica per eccellenza, dove i ruoli canonici sono scambiati, come a sottolineare che nulla nella vita segue uno statuto e che alla giovinezza ci si arriva come a uno stato interiore.
“The Vast of Night” e i misteri della notte americana
The Vast of Night – L’immensità della notte, disponibile dal 29 maggio su Amazon Prime, è un film minimale, elegante e sorprendente. Presentandolo al Toronto Film Festival, il regista Andrew Patterson ha spiegato al pubblico come due elementi fossero per lui dei presupposti essenziali: voleva fare un film che prendesse il genere seriamente e che si potesse ascoltare come se si trattasse di un racconto radiofonico o di un podcast. Entrambi gli aspetti risultano chiaramente dalla visione dell’opera prima del regista, che è alcontempo un’operazione di minuzioso citazionismo storico ed estetico e una prova di abilità affabulatoria, grazie all’utilizzo del dialogo e della narrazione, che rendono The Vast of Night un misterioso, piccolo gioiello cinefilo.
“The New World” e la critica all’etnocentrismo
Malick si ferma agli albori di quello che sappiamo sarà un genocidio, e dopo l’operazione mastodontica di The Tree of Life il suo linguaggio si atomizza in racconti minimi e intimisti, quasi accettando l’impossibilità di concepire un discorso storiografico in uno scenario come quello contemporaneo. Ma The New World non è solo un racconto di perdita e sconfitta, e tramite il personaggio di Pocahontas, che come altri personaggi malickiani ci mostra una tenace e incrollabile fedeltà alle proprie istanze interiori, il regista texano prosegue il suo percorso da inesausto idealista, continuando a mostrarci il potenziale umano.
Antonio Pietrangeli e il femminile
È piuttosto noto il fatto che Antonio Pietrangeli non sia stato un regista particolarmente apprezzato dalla critica nell’arco della sua carriera, e che sia stato rivalutato solo dopo la sua morte. Naturalmente è troppo facile ergersi a “critici dei critici” e disapprovarli a posteriori, eppure ad oggi risulta difficile comprendere il motivo di tale scarsa valorizzazione del lavoro del regista romano, la cui filmografia (in parte recuperabile su Amazon Prime Video e RaiPlay) stupisce per l’incredibile modernità e per l’ampia gamma di sfumature nella raffigurazione dei personaggi femminili, che pur essendo ognuno a proprio modo rappresentativi dei cambiamenti di un’epoca e dei suoi costumi, mantengono la loro unicità e forte caratterizzazione.
Gabriel Abrantes e la reinvenzione immaginifica del mondo
Prima di approdare con Diamantino, alla co-regia di un lungometraggio, Gabriel Abrantes aveva già alle spalle una ricca produzione, iniziata con una serie di cortometraggi di pochi minuti. Ripercorrendo a ritroso i lavori del regista portoghese naturalizzato negli USA, si può vedere come l’ironia mordace di Diamantino, espressione di una satira sociale e politica che esplode in un ribaltamento fantasmagorico dei luoghi comuni e delle derive reazionarie contemporanee, non sia altro che la summa di una poetica assai consolidata. Fin dalle prime opere – pillole di anarchico nonsense a metà strada tra video essay deliranti e cinema narrativo – Abrantes aveva abituato il suo pubblico ad aspettarsi da ogni suo lavoro un’indagine iconoclasta e una riflessione personalissima.
“Volevo nascondermi” e l’impossibile appartenenza
Rivedendo la cinematografia di Giorgio Diritti alla luce del suo ultimo film, quello che pare emergere complessivamente, oltre al profondo senso etico, è una visione tragica sull’insolubile conflitto tra il diverso e la comunità. Da un film all’altro viene ripresa una riflessione sull’animo non solo omologante, ma anche predatorio e ferino del branco umano, che non si limita a espellere chi ne altera gli equilibri, ma ne distrugge anche i suoi componenti più fragili. Non c’è messa in mostra di una conciliazione tra le parti, perché non viene data possibilità di riscatto ai più deboli. C’è piuttosto la presa di coscienza dell’animo spietato e egoistico che dirige le azioni umane in molteplici contesti.
La città imperfetta di “Lontano lontano”
Come in Pranzo di ferragosto, anche per Lontano lontano uno degli aspetti centrali della cinematografia di Gianni Di Gregorio sembra risiedere nella rappresentazione di una consustanzialità tra Roma e i suoi storici abitanti, per cui lo spirito della città è letteralmente incarnato dai malconci e coriacei protagonisti dei suoi film, che mostrano ognuno a proprio modo lo spirito creativo e tutto italiano dell’arte di arrangiarsi. Visi rugosi e alcolici, già mostrati tramite il personaggio del Vichingo in Pranzo di ferragosto. Così peculiari e poco cinematografici nel senso patinato del termine, da indicare l’aderenza di Di Gregorio alla rappresentazione del proprio quotidiano con affetto e fedeltà, recuperando in piccolo quel gusto per il caratteristico tanto caro alla commedia all’italiana.