Se la Storia siamo noi, a volte rispondere alla sua chiamata richiede una buona dose di coraggio e forse anche una leggera vena di follia. Doti che di certo non mancarono a Julio César Strassera, pubblico ministero che nel 1985 in Argentina sostenne l’accusa in un processo civile che nessuno avrebbe voluto sostenere: quello alla Giunta militare responsabile di una dittatura violenta e feroce, un regime che aveva insanguinato il paese dal 1976 al 1983 ma da cui buona parte dell’Argentina non aveva ancora preso le distanze.
Il regista Santiago Mitre nel suo Argentina 1985, in concorso alla 79° Mostra del Cinema di Venezia, sceglie di raccontare la storia di questo post dittatura attraverso il personaggio decisamente coraggioso e temerario di Julio César Strassera, soprannominato appunto el loco (il matto). Strassera, da pubblico ministero sconosciuto ai più, nel 1985 sale alla ribalta della cronaca nel momento in cui accetta l’incarico per l’accusa nel processo alla Giunta militare argentina che aveva fatto sparire oltre trentamila oppositori politici (desaparecidos). La storia di una chiamata individuale - quella che Strassera cerca in ogni modo di evitare ma che infine accetta - diventa così Storia.
"Credo che l’Argentina come Paese abbia pensato molto alla sua dittatura - ha dichiarato Mitre - ma non si sia mai fermata abbastanza invece a riflettere sul processo di transizione tra dittatura e democrazia". Quella fase di transizione epocale Mitre la racconta attraverso i 5 mesi di processo, i 709 casi e gli 833 testimoni che investono la vita di Strassera (Ricardo Darín) e della sua famiglia, del suo assistente, Moreno-Ocampo (Peter Lanzani) e del loro team di giovanissimi avvocati: gli unici che accettano di lavorare ad una causa che tutti i legali di lunga esperienza rifiutano con la certezza di non poter arrivare a una condanna.
Il regista segue la vita professionale e privata di questi personaggi, realizzando un legal movie in cui la suspense non deriva dall’esito della vicenda narrata, che già conosciamo - i generali Videla e Massera furono condannati all’ergastolo per crimini di guerra e crimini contro l’umanità - ma dalle dinamiche con cui questa avventura incide su di loro. Mitre ce li mostra ora animati da entusiasmo - e dalla volontà di portare alla luce quello che da anni l’intera Argentina sapeva ma negava - ora provati e spaventati da minacce personali, anche di morte, che si materializzano con pedinamenti, improvvisi lanci di vernice, telefonate o lettere anonime con proiettili.
Al centro del film il personaggio di Strassera, interpretato dell’intenso Ricardo Darín, uno degli attori più noti del cinema argentino contemporaneo (e protagonista, tra le tante pellicole, di Il segreto dei suoi occhi, premio Oscar 2010 come miglior film straniero). Mitre insegue una minuziosa ricostruzione storica che realizza attraverso una scenografia e una sceneggiatura molto accurate ma anche attraverso la ricerca della somiglianza fisica degli attori ai personaggi reali, quasi a voler catturare nel modo più fedele possibile oltre che lo spirito del tempo anche la sua immagine (in alcune sequenze sovrappone direttamente alcune fotografie del processo alle immagini del film).
Avvolto nel fumo di sigaretta che ci pare quasi di respirare, Darín si trasforma nel vero Strassera, con gli occhiali dalla montatura squadrata, i capelli lisci perfettamente pettinati all’indietro, i baffi curati, i vestiti eleganti e quel temperamento ironico che era proprio del pubblico ministero e che alla fine permea non solo l’intera sceneggiatura ma anche il tono stesso del film, unendo il dramma alla commedia, la Storia alla quotidianità.
Attraverso Strassera riappare inoltre una tematica già presente nella filmografia di Mitre, quella dell’uomo che passa da un contesto di vita privata a quella pubblica e politica. E questa volta torna nella sua dimensione opposta e speculare rispetto a quella che il regista ci aveva proposto nel suo precedente Il presidente. Mentre l’immaginario neopresidente dell'Argentina Hernán Blanco - sempre interpretato da Darín - cela sotto una falsa innocenza una personalità ambigua e la volontà di mettere la politica al proprio servizio, Julio César Strassera incarna invece l’anonimo funzionario di Stato che una volta chiamato mette a rischio la propria vita, oltre a quella di colleghi e famigliari, nel nome della nazione e dell’idea stessa di giustizia.
Accanto a quello del pubblico ministero, il regista dipinge poi una serie di personaggi credibili e determinanti ai fini della vicenda. Oltre all’assistente Moreno-Ocampo - che provenendo da quella classe media vicina al generale Videla serve ad inquadrare il punto di vista di buona parte della società argentina - c’è tutta una serie di personaggi femminili che seppur secondari arricchiscono e rendono ancor più verosimile il racconto. A partire dalla moglie Silvia (Alejandra Flechner) che con il suo senso pratico e la sua determinazione sostiene e incoraggia il marito nonostante il clima intimidatorio in cui cade la famiglia, passando per le testimoni femminili del processo che espongono il loro privatissimo dolore in un pubblico tribunale, per arrivare infine alle Madres De Plaza De Majo, a cui la difesa dei Generali chiede perfino di togliersi il fazzoletto bianco dal capo (il loro simbolo di protesta) durante le sedute in aula: una piccola apparizione che rende onore e memoria alla forza e alla perseveranza delle madri dei desaparecidos.
“Signori giudici - dichiarò Strassera alla corte nella sua requisitoria finale - vorrei rinunciare all'originalità nel chiudere quest'arringa. Perciò vorrei usare una frase non mia, poiché già appartiene a tutto il popolo argentino. ¡Nunca más!”. Mitre sceglie di incorporare questo testo originale dell’arringa conclusiva nella scena finale del suo film facendone quasi un manifesto etico e formale. Anche lui usa a sigillo della pellicola la famosa frase ¡Nunca más! (mai più) e anche lui rinuncia all’originalità. Per Argentina 1985 sceglie infatti un impianto classico - che rinuncia ad esempio alle ambiguità, alle sospensioni e ai simbolismi della sua pellicola precedente - e rimane concentrato sul racconto, lineare e quasi documentaristico, di quel manipolo di uomini e donne che in cinque mesi sfidarono la paura e la possibilità di fallire per riscattare il dolore e l’ingiustizia subite da un intero Paese.