Frank Enley (Van Heflin) è un veterano dalla Seconda guerra mondiale, sopravvissuto a un campo di prigionia tedesco. Tornato in America si è ricostruito una vita nella piccola cittadina di Santa Lisa, cercando di lasciarsi un passato ingombrante alle spalle. Ha una moglie, un bambino piccolo e un lavoro per il quale è stimato. Quando il passato bussa alla sua porta vestendo i panni di Joe Parkson (Robert Ryan), un vecchio compagno d’armi che invoca vendetta, la quieta felicità domestica viene risucchiata in un vortice di angoscia e tensione.
Con Atto di violenza, del 1948, il regista di origine austriaca Fred Zinnemann riprende, in un noir teso e via via sempre più claustrofobico, i temi legati alla seconda guerra mondiale che aveva già affrontato nel suoi precedenti La settima croce del ‘44 e Odissea tragica dello stesso ‘48 (mentre pochi anni dopo, nel ‘53, approfondirà i chiaroscuri dei rapporti fra commilitoni nel famoso melodramma Da qui all’eternità).
Zinnemann parte da un pretesto in stile revenge movie - Frank si è macchiato di tradimento nei confronti dei suoi compagni e ora Joe li vuole vendicare uccidendolo - per costruire una storia di lenta ma serrata discesa negli inferi del senso di colpa. I passi strascicati della zoppia di Joe - esito della furia violenta di un’imboscata nazista - risuonano per tutto il film come il ticchettio di una bomba a orologeria, scandendo il tempo che rimane a Frank prima della deflagrazione finale: la resa dei conti col passato che lo insegue.
Un piano sequenza notturno ci porta dall’alto dei tetti dei grattacieli al marciapiede dove Joe trascina la sua zoppia per entrare in una casa, procurarsi una pistola e caricarla. L’arma, che ci viene mostrata in primo piano ancor prima dei titoli di apertura, è il simbolo della violenza che permea questa storia di reduci. Noi spettatori sappiamo fin da subito che l’obiettivo di Joe è uccidere Frank. Chi invece non sa nulla è la giovane moglie del protagonista, Edith (Janet Leigh), che prima di comprendere cosa sta accadendo riceverà a casa e per più volte la visita del vecchio compagno d’armi del marito.
Zinneman decide infatti di rappresentare il passato inizialmente come una minaccia allo spazio intimo e famigliare. Una volta trovata l'abitazione del suo ex compagno, Joe comincia a girarci intorno in modo ferino, come per studiare la propria preda e intimorirla. La casa stessa assume i connotati di un rifugio: il regista inquadra finestre, porte, sgabuzzini, le sbarre di un lettino, e ci fa sentire i passi minacciosi di chi cerca un varco per entrare. Fino a che Frank si allontana per lavoro a Los Angeles spostando l’interesse di Joe dalla casa.
Parallelamente Zinnemann sposta la scena dalla tranquilla provincia californiana alla tentacolare città, dove la disperazione del protagonista - ormai sempre più braccato dal proprio destino - si trasforma in puro delirio. Dopo vari bicchieri di troppo il presente si mescola al passato, il rimosso torna a galla assieme alle parole di una notte di sangue. “Non farlo Joe, non farlo” continua a ripetersi Frank ritrovandosi dentro a un tunnel di città simile a quello che ha condotto i suoi compagni alla morte. Fino a quando il passato si materializza con la forza inarrestabile di un treno in corsa sotto al quale Frank cerca di suicidarsi.
Nei bassifondi della grande città Frank incontra anche la malinconica Pat (Mary Astor), una prostituta la cui bellezza è ormai segnata dal tempo ma che capisce al volo la situazione. La donna unisce a un sentimento di sincera pietà la speranza di un tornaconto economico e fa leva sulla disperazione dell’uomo per renderselo amico: “Quindi sei infelice. Rilassati, nessuna legge dice che devi essere felice”.
Con Pat, Zinnemann crea un piccolo ma grande personaggio femminile, triste, cinico e disilluso ma anche molto umano, che a livello narrativo ha inoltre l’interessante funzione di bilanciare il ventaglio di figure femminili, accostandosi e contrapponendosi alle altre due più ancillari e rassicuranti: da una parte la moglie di Frank, che dopo aver scoperto il passato del marito decide lo stesso di supportarlo, e dall’altra la fidanzata di Joe, che cerca più volte di dissuadere il compagno dal perpetrare il circolo vizioso di violenza innescato dalla guerra.
Il clima di tensione crescente, che si fa disperazione e delirio, è poi sottolineata da alcuni aspetti formali che impreziosiscono il film. La fotografia del premio Oscar Robert Surtees utilizza un bianco e nero di tipo espressionista e fa un uso della luce fortemente simbolico. Le luci si accendono e spengono sui personaggi seguendo il flusso delle loro stesse emozioni e spesso i volti sono letteralmente tagliati fra zone d’ombra e di luce, come a sottolineare ambiguità e scissioni interiori.
Zinneman poi amplifica queste scelte inserendo in tutto il film righe verticali e oblique che tagliano le scene e spesso si materializzano sottoforma di scale e balaustre, presenti sia negli interni, come la casa di Joe, di Frank e di Pat ma anche negli esterni, come nei vicoli della notte losangelina.
A regia e fotografia si aggiunge la bravura di Van Heflin, che dà corpo a un personaggio apparentemente vincente per poi distruggerlo in un totale annientamento psicologico e morale, e quella di Mary Astor che nel tempo di una brevissima scena riesce a farci percepire tutta l’angoscia del film condensata in un’agghiacciante risata telefonica.
Con Act of Violence Zinnemann intesse insomma un racconto, complesso e senza sconti, sulle cicatrici di guerra e si fa acuto e sensibile precursore di quello che negli anni successivi - soprattutto dopo la guerra del Vietnam - sarà un tema molto indagato dal cinema americano: il reinserimento dei reduci nella società.
Dalla camminata trascinata della scena iniziale fino alla resa dei conti finale col duello notturno nella stazione di Santa Lisa - in una sorta di mezzanotte di fuoco - è chiaro che le ferite di guerra non sono solo quelle fisiche (la zoppia, la dipendenza dall’alcol) ma anche e soprattutto quelle morali (la cieca sete di vendetta, il paralizzante senso di colpa). Ferite che, sia a livello individuale che collettivo, non è possibile dimenticare o ignorare, e forse nemmeno sanare.