Chissà perché nel promuovere Babygirl si è deciso di nascondere l’ironia che pervade l’intero film. Certo, la storia fa presupporre tutt’altro, ma ciò che propone davvero è la sovversione di questa aspettativa. Il rapporto extraconiugale tra una dirigente aziendale e un più giovane tirocinante ha tutte le carte per essere la trama di un thriller erotico, se non fosse che la componente thriller è quasi del tutto annullata da una costante sdrammatizzazione e lo smorzamento della tensione, mentre l’erotismo proposto è poco carnale, ma più simile a quello di un gioco di ruolo.

Romy (Nicole Kidman) è una madre modello, moglie amorevole e forte leader aziendale, ma in 19 anni di matrimonio non ha mai avuto un orgasmo. Se non lo ha mai detto al marito è solo per paura. Teme che i suoi desideri sessuali possano essere malvisti, anche perché è lei stessa a problematizzarli. È una donna di potere eccitata dal rischio di perderlo, per questo la relazione con Samuel (Harris Dickninson), che mette a repentaglio lavoro e stabilità familiare, è qualcosa da cui non riesce a tirarsi indietro.

Il confine tra la manipolazione da parte del ragazzo e il desiderio di sottostare ai suoi ordini è labile e costantemente ci viene ricordato quanto tutto ciò comporti il massimo dei rischi per lei e nessuna conseguenza per lui. Samuel è però un dominatore abbastanza rispettoso (per quanto possa suonare male), a tratti persino divertente, ed è il primo a tirare fuori argomenti quali il consenso, la necessità di una safeword, o ridere nel momento in cui ordina al suo capo di comportarsi come un cane. In questo senso, al netto di litigi e sfuriate da entrambe le parti, è difficile vedere il rapporto come qualcosa di fortemente disfunzionale o tossico.

Insomma, quando tutto sembra andare a rotoli i due si parlano e in un modo o nell’altro appianano le divergenze, imparando a conoscersi e familiarizzando con le dinamiche del gioco. Ciononostante è sempre lui a tenere le redini, non solo perché in un ruolo di superiorità ma soprattutto per la maggiore consapevolezza in termini relazionali.

Il gap anagrafico tra i partner porta infatti a una diversa concezione del sesso e delle fantasie a esso legate. Il discorso si amplia poi agli altri personaggi man mano che la faccenda sfugge al controllo e la differenza tra un pensiero “moderno” e un altro più “datato” si fa sempre più netta. Ciò che per le vecchie generazioni era considerato tabù o immorale è pienamente accettato dalle nuove al punto da non essere percepito come problematico. Non a caso, nonostante l’apparente rischio corso dalla protagonista, le sue azioni non hanno conseguenze negative.

Come dicevamo, non c’è tensione e non perché Halina Rejin sia incapace di costruire atmosfere da thriller (vedasi Instinct, esordio della regista e per certi versi speculare a Babygirl), piuttosto, così come è pienamente in grado di creare i presupposti per un disastro annunciato, allo stesso modo, gioca abilmente con il climax negandolo. Se la dinamica fa presupporre il peggio, ecco che le cose vanno inaspettatamente per il verso giusto.

Il tutto è esemplificato dal rapporto con la figlia Esther, che ama Mary ma si “diverte” con Ophelia e si avvicina alla madre proprio nel momento in cui questa si allontana dalla famiglia. Persino a lavoro, tutto ciò che Romy ottiene è comprensione verso i suoi errori e neanche l’atto più eclatante metterà a repentaglio il suo posto.

Babygirl sembra quindi voler parodizzare le dinamiche classiche del rapporto capo-assistente, nel tentativo di sdoganare quelle che vengono percepite come “perversioni” sessuali, oggi non più materiale da thriller, ma elemento comico. La dura e robotica donna, incastrata nei suoi ruoli (madre modello/ moglie perfetta/ inscalfibile leader aziendale), impara il piacere della vulnerabilità da persone più giovani, che crede invece di dover proteggere.

La leggerezza di cui parlavamo è ravvisabile poi nel marito Jacob, insicuro regista teatrale alle prese con Hedda Gabler, interpretato da un esilarante Antonio Banderas. Compagno fantastico, innamorato perso della moglie e inequivocabilmente comico nel suo (non) reagire alla vicenda, anch’egli perché paradossalmente inesperto.

Il messaggio allora arriva forte e chiaro, talvolta anche troppo, ma se Rejin è scaltra nel giocare ironicamente con l’inevitabile didascalismo dovuto al rapporto pedagogico che i più giovani instaurano con gli “adulti” (addestrare il partner è la chiave per sbloccare il piacere sessuale), lo è un po’ meno nel gestire il ritmo della narrazione. Il rapporto tra i due, fatto di litigi e rappacificamenti inframmezzati da montaggi musicali alla Rocky, in cui anziché sollevare pesi ballano e fanno sesso, alla lunga risulta ridondante appesantendo non poco la visione.

Inoltre, l’avvio della vicenda appare decisamente forzato: all’incredibile Samuel bastano un paio di sguardi languidi e uno “Scooby Snack” per capire immediatamente le perversioni sessuali più recondite della protagonista, le stesse che il marito non ha notato per ben 19 anni. Lavorando di fantasia si potrebbe anche giustificare la scelta aggrappandosi alla più spiccata sensibilità dei giovani, in fondo è uno dei temi, ma un breve scambio tra i due in cui la questione sembra venir fuori rende ancor più problematico il personaggio. Senza andare troppo nello specifico, solleva più domande che risposte.

Ciononostante è affascinante vedere Babygirl come una sintesi della finora breve filmografia di Halina Rejin, che se in Bodies Bodies Bodies (unico film non scritto da lei) proponeva una satira dei rapporti ipermediati della Gen Z e in Instinct il “desiderio pericoloso”, qui mette in dialogo le due pellicole. Trattare la sessualità con ironia sul terreno dello scontro generazionale si rivela dunque la scelta giusta, liberandosi da ingombranti psicologismi e ponendosi in linea con una corrente di pensiero che questa volta sembra condividere a pieno.

Un film non del tutto riuscito, ma sicuramente interessante, soprattutto se non ci si aspetta un thriller. Per cui se a un certo punto riconoscerete il requiem in Re minore K 626, ricordate, non ha alcuna funzione drammatica e non è lì in quanto opera di Mozart, ma solo perché nel frattempo Lacrimosa è diventata una meme song. E la verità è che noi la conosciamo per quello.