La Hollywood classica è stata e continua ad essere al centro di un immaginario che ha sempre affascinato la produzione cinematografica. Allo stesso tempo questa fascinazione è andata di pari passo con una costante condanna a un sistema spietato, ricco di lati oscuri, un vortice di pressioni e ipocrisie.
Non stupisce che anche Babylon di Damien Chazelle si concentri su questa contraddizione, già a partire da un incipit in cui esplodono l’eccesso e il grottesco dello star system degli anni Venti. Babylon, così come gli altri film di questo tipo, si può leggere anche come documento di storia del cinema, seppur tutt’altro che realistico, in grado di individuare gli sconvolgimenti produttivi di quella specifica epoca.
Babylon, infatti, racconta proprio il terremoto provocato dalla più grande innovazione nella storia del cinema, l’avvento del sonoro, superiore, in termini di impatto, sia al passaggio al colore sia agli altri cambiamenti che hanno toccato la tecnica cinematografica. Babylon è quindi un riaggiornamento di Singin’ in the Rain, più volte rievocato nella pellicola di Chazelle, ma con esisti senz’altro meno consolatori.
Il quarto film di Chazelle presenta un corpus di personaggi che vengono travolti dall’onda di novità rappresentata dal sonoro. Questo cataclisma corrisponde, come si vede nel film e come la storia ci ha insegnato, ad un ricambio generazionale, con il tramonto dei divi del muto, la fine di alcune professionalità, e l’emergere di nuove figure. Impossibile vedere il Jack Conrad di Brad Pitt senza pensare a John Gilbert, star del cinema muto decaduta in seguito al passaggio al sonoro, nonché alla Norma Desmond (Gloria Swanson) di Viale del tramonto. E non si può non scorgere nell’arco narrativo di Manuel Torres (Diego Calva) dei punti in comune con i protagonisti di Singin’ in the Rain, che riescono a reinventare se stessi seguendo l’onda del cambiamento.
Certo, nonostante il pessimismo e la disillusione, Chazelle non fa a meno di inserire la sua inevitabile ammirazione per una macchina dei sogni come quella hollywoodiana, in grado di superare anche le sfide apparentemente più insormontabili pur di portare a casa la scena, un congegno che sta al di sopra delle sue singole parti ed è disposto a passare sopra a tutto e a tutti in nome della produttività.
In questo senso il finale del film non è semplicemente un’ammissione di questa fascinazione sconfinata, ma anche il riconoscimento del potere dell’immagine cinematografica che nel corso di poco più di un secolo si è evoluta come poche altre arti, mantenendo sempre e comunque il proprio primato come medium di massa.
Babylon è una celebrazione di quel potere, che affascina e distrugge, la cui vitalità esplode in un film a sua volta vitale, estremo, forse troppo smisurato in alcune sue parti. Si ha l’impressione che a volte Chazelle non riesca a tenere salde le briglie della sua creatura gargantuesca e si perda nella rete di sottotrame che inserisce nel racconto.
Ma pur in questa marea di stimoli, trascinati da un montaggio che non dà tregua e da un citazionismo ricercato, si rimane meravigliati difronte ad un’ottima tecnica e a una buona scrittura che fanno di Babylon un film senza dubbio notevole.