Può un film soffrire di una sindrome fobica? A giudicare dall’horror vacui da cui è affetto Babylon, sì.
Il quinto, rutilante lungometraggio di Damien Chazelle non lascia spazio a vuoti o silenzi di sorta, quasi temesse di ricavarne ansia o, più banalmente, il regista non sapesse come gestirli, trascinato com’è dall’ambizione di saturare al massimo grado ogni fotogramma. Contagiato da una forma parecchio seriale di feticismo narrativo, Chazelle ha confezionato un film tumultuoso e affollatissimo di personaggi eventi rumori spesso ripresi da vecchie pellicole, una fiera delle vanità extra-large di oltre tre ore. Per di più in Cinemascope, neanche fosse un peplum con l’età del jazz al posto dell’antichità greco-romana (anche se non manca un elefante).
Tra la fine degli anni Venti, ruggenti per definizione, e i Trenta segnati dal codice Hays, dalla Grande Depressione e dal passaggio al sonoro Babylon mette in scena – con profusione di schermi e palcoscenici – splendori e miserie di una serie di figure ossessionate dal successo nella Hollywood prima selvaggia, poi moralista, sempre onnivora della golden age: un tuttofare messicano che diventa produttore esecutivo, una giovane star tossicomane col vizio del gioco d’azzardo, un fascinoso divo del muto in odor di dismissione, un promettente trombettista che cede alle tentazioni dello showbiz, una cantante di cabaret lesbica di origine cinese, una cronista mondana cinica e disillusa, persino un alter ego di von Stroheim in canottiera.
Ma si capisce presto che Chazelle, refrattario al film corale e specializzato invece nei duetti (vedi Guy and Madeline on a Park Bench e Whiplash), non ha assimilato a dovere la lezione di Fellini e Altman, pur avendo indicato lui stesso La dolce vita e Nashville come influenze creative del progetto babilonico.
Incrociando in maniera alquanto dispersiva i fili della trama al ritmo della colonna sonora del fidato Justin Hurwitz, ora inebriante ora enfatica (e poi perché quelle autocitazioni dai fraseggi di La La Land: amnesia compositiva o calcolato narcisismo?), Chazelle accumula carrellate prevedibili e piani sequenza bulimici al servizio di un esibizionismo drammaturgico che sfoggi quanti più registri possibile.
Si va dal decadentismo dionisiaco della festa iniziale (un po’ irrealistico, considerati i balli da videoclip anni Novanta, e in fondo pudico dato che relega ai margini dell’inquadratura gli amplessi orgiastici) al melodramma del penultimo segmento, dalla screwball comedy delle spassose sequenze sui set alla goffa riproposizione freak della Los Angeles depravata di Chandler (ma il gangster inceronato e sopra le righe di Tobey Maguire è una trovata ispirata) fino al musical classico che nel finale collassa tra lacrime, reagenti chimici e colori primari.
Sarà vero, come scrive chi la elogia, che trattandosi di un’opera volutamente eccessiva e fieramente chiassosa, bisognerebbe abbandonarvisi come davanti a uno spettacolo pirotecnico e a un atto di fede nei confronti della settima arte? Si fa fatica a lasciarsi sedurre quando ci si accorge che il carnevale è pianificato a tavolino e le sterminate potenzialità espressive del cinema servono a proporre in coda una summa della sua storia che però assomiglia a un interminabile spot del tipo “Torniamo in sala”.
Va detto che la prima ora è esaltante e ha l’audacia di stordire, giacché riesce a riprodurre a livello sensoriale gli effetti dell’onnipresente cocaina. Purtroppo dalla seconda in poi, quando alla sbornia subentrano i postumi (con tanto di vomitata su un tappeto di lusso), si ha l’impressione di assistere non a un film, piuttosto all’imitazione di un film.
Peccato, perché al fondo c’è uno sforzo mimetico se non originale (ci avevano già pensato A che prezzo Hollywood?, Viale del tramonto, Cantando sotto la pioggia, ampiamente omaggiato da Chazelle, Gli ultimi fuochi, Barton Fink e non pochi altri) quanto meno sincero: restituire la magia e l’orrore dell’unica industria capace di fabbricare sogni universali e di una città incantevole e bugiarda perché "promette un’immortalità che non mantiene".
Si cita non a caso dal dittico Hollywood Babylon di Kenneth Anger, il leggendario “libro nero” dello star system da cui il regista ha ricavato il titolo e diversi aneddoti per la sceneggiatura, compresi quelli su Clara Bow e John Gilbert, gli attori caduti nel dimenticatoio con l’affermarsi del talkie cui sono ispirati i personaggi interpretati da Margot Robbie e Brad Pitt col consueto mestiere.
Sappiamo che tutti gli astri, prima o poi, sono destinati a raffreddarsi e spegnersi. Le stelle di Babylon però – a differenza di quelle che sgambettavano nella city of stars di La La Land – sembrano nate fredde.