Bachelor’s affairrs (1932) di Alfred L.Werker, tratto dalla commedia Precious di James Forbes andata in scena con grande successo nei teatri di Broadway nel 1929, è un esempio abbastanza classico e, per così dire, “medio“ di commedia sofisticata, dominata dalla parola e realizzata prima che la follia screwball prendesse il sopravvento arricchendo i migliori esempi del filone di una carica di irriverente follia capace di destabilizzare e capovolgere le realtà sociali di partenza.
Nella vicenda di un ricco e bon vivant playboy avanti con gli anni che si invaghisce di un’avvenente quanto sciocca giovane ragazza di provincia finendo per sposarla, con i conseguenti e inevitabili problemi causati dalla differenza anagrafica, troviamo quindi le caratteristiche principali della commedia statunitense dei primissimi anni del sonoro: ambientazioni che riproducono un rarefatto, quasi irreale e affascinante universo altoborghese raffinato e lussuoso dove il lavoro è assolutamente accessorio e dove la maggior parte del tempo è dedicato all’ozio e alle schermaglie amorose. Allo stesso modo è evidente l’ispirazione teatrale che si riflette anche nello stile di regia, assolutamente strumentale e subordinato al predominio della parola espresso dalla brillantezza e dalla vivacità dei dialoghi.
Non stiamo parlando ancora della cosiddetta “regia invisibile“ tipica degli Hawks o del “Lubitsch’s touch“, quanto di una quasi totale subordinazione dell’immagine al parlato, con la prima che si limita a dare volti e scenografie alle battute e movimento alla derivazione teatrale; erano del resto, quelli del primo lustro del cinema sonoro, anni in cui la commedia - fino a quel momento abituata a creare comicità con la fisicità della slapstick pi o meno moderata, con l’utilizzo di ogni dettaglio del piano e dello spazio dell’inquadratura e con l’esaltazione dei volti e dei corpi - doveva ancora prendere le misure al sonoro, finendo quasi vittima di una bulimia di parole.
Ad ogni modo è proprio il ping pong di battute, frecciatine e sottointesi a rendere il film di Werker ancora oggi godibile, a far sì che meriti di essere salvato dall’oblio. Sono dialoghi che sfruttano al massimo le maglie ancora larghe permesse dal pre-codice Hayes, meno invadente e severo di quanto sarebbe stato una manciata di anni dopo; sono frequenti infatti scambi di battute in cui dominano la malizia e doppi sensi chiari, così come, pur nel tono complessivo abbastanza innocuo e bonario (perlomeno se paragonato alla perfidia delle migliori commedie dell’epoca), non manca una manciata di battute che coglie il segno e che anticipa la sottile cattiveria ironica delle migliori screwball del decennio.
La vittima preferita è il ricco playboy protagonista interpretato da Adolphe Menjou, autoironico nel giocare con il tempo che scorre anche per la sua figura tipica di seduttore. Il protagonista spicca in un contesto dove tutti i personaggi – con una significativa eccezione femminile - agiscono seguendo esclusivamente nel migliore dei casi i capricci del momento, e nel peggiore calcoli premeditati; è il caso, quest’ultimo, della sorella maggiore di Eve, calcolatrice e manipolatrice, esponente di una piccola borghesia di provincia colpita dalla grande depressione che non vuole perdere un agiato tenore di vita e che è irrimediabilmente attratta dai lussuosi status symbol.
Riecheggia quindi anche un’altra tematica cardine di molte commedie statunitensi dell’epoca, che verrà approfondita – per esempio – nell’archetipico Accadde una notte di Frank Capra, in Primo amore di George Stevens, ne L’impareggiabile Godfrey di Gregory La Cava o in Pranzo alle otto di George Cukor: la convivenza e il contrasto tra povertà e ricchezza, tra apparenza e realtà delle cose, tra illusione e resa dei conti. I traumi cioè di una nazione con le ferite della grande depressione economica ancora aperte.