Sono mesi di prolifica produzione per Elisa Amoruso che con Bellissime torna a esplorare gli universi femminili ai tempi dei social media. Archiviata Chiara Ferragni, traccia una rotta che la conduce verso il mondo sommerso di chi ci prova, e non sempre ce la fa. Il documentario, in teoria, è tratto dall’omonimo romanzo di Flavia Piccinni. In pratica, prenda una piega diversa. Laddove Piccinni compie una vera e propria ricerca etnografica, lunga mesi, ricca di interviste, voci e punti di vista differenti, Amoruso limita il quadro, raccontando un’intima storia familiare: quattro donne, una madre e le sue tre figlie, all’ossessiva ricerca di perfezione estetica e celebrità.
Cristina, Giovanna, Francesca, Valentina e il culto della bellezza. Un imperativo al quale è impossibile sottrarsi. La madre, Cristina, è una donna alla quale è stata negata la possibilità di esprimersi come avrebbe voluto, complice una madre violenta. Non le resta che riscattarsi, inconsciamente, attraverso le proprie figlie. È lei ad esercitare con ferrea disciplina il controllo sulla loro vita, sulle scelte, persino sui corpi. E non è meno indulgente con se stessa. A suon di diete ferree, post Instagram, provini e molti rifiuti le donne compiono la loro parabola sacrificale, con amara dolcezza, verso il successo.
È facile intuire la non troppo velata (e rischiosa) allusione a Bellissima (1951) di Luchino Visconti. Padri assenti e madri che scaricano impropriamente sulle figlie le proprie frustrazioni. Lolite dall’infanzia schiacciata nelle vite dei genitori, lungo binari costruiti da altri, strette nella morsa di aspettative ben precise, spesso deluse. In effetti, pur essendo passato oltre mezzo secolo, se si getta uno sguardo alla critica dedicata le assonanze sono evidenti: dalla Stampa, per citarne una « [Il film], in apparenza semplice, è dettato da un vasto, umanissimo tema: le grandi delusioni della piccola gente»
Certamente, allora la condanna era diretta al mondo di Cinecittà e non è, per ovvie ragioni, il caso di questo documentario. È piuttosto una colpa intergenerazionale, un testimone passato di madre in figlia. Il fardello pesante del proprio desiderio, lacanianamente inteso, invischiato e confuso con il desiderio dell’altro.
Pare quasi risalire alla colpa - se di colpa si può parlare - di una madre universale: la società dell’apparenza e la promessa che porta con sé di una celebrità effimera, effimera quanto la soddisfazione che ne traggono i suoi follower o seguaci se vogliamo, termine che rende meglio l’idea di dedizione e idolatria sottesa al sistema. Tanto che “bellissime” non può che apparire un superlativo grottesco. Bellissime, sì, a qualunque costo.