“I've seen things you people wouldn't believe”, sibilava immerso nella pioggia il replicante Roy Batty nel suo celebre monologo finale di Blade Runner. Monologo che si è reso iconico non soltanto a partire dal suo grande fascino evocativo, ma anche e soprattutto per il suo valore filosofico.
L'androide che prima di morire declama la propria piccolezza è una figura esistenziale pietosa e titanica; con le sue parole enfatizza una caducità propria sia dell'uomo sia dei prodigi della sua tecnica. Ci interessa qui prendere spunto proprio da questa frase e porci però in un'ottica differente, sulla scia di alcune implicazioni che non sempre vengono prese in esame quando si parla del film di Ridley Scott. Se è vero che le disavventure di Rick Deckard ruotano tutte attorno alle possibilità di entità artificiali di somigliare all'uomo, è senz'altro vero che esse si pongono in un'ottica di scambio non frequente nei film di fantascienza: non solo Rick deve far luce su un mistero e combattere contro gli androidi, ma finisce per trovarsi a stretto contatto con loro, coi loro desideri e con le loro paure. Il suo percorso si genera da un'opposizione e arriva a somigliare a un incontro, a un contatto che va ben oltre la limitatezza della carne e il pericolo della morte. Conoscere l'Altro, conoscere l'androide, conoscere l'uomo-oggetto: poco importa del risultato, purché si conosca, purché si sappia che c'è dell'altro, purché si capisca che al di là della violenza e della furia cieca ci sono desideri e interiorità.
È affascinante come la tematica dell'incontro si sviluppi anche in campo videoludico proprio a partire da questi presupposti: se nella fantascienza distopica di Dick l'alterità irriducibile è quella del robot antropomorfo, nell'ambito dell'interattività si arriva a parlare di Altro, banalmente, quando si ha a che fare con un nemico. E lo sviluppo della testualità videoludica si muove proprio in una crescente profondità del nemico, in un suo sempre più spiccato ed evidente spessore: si potrebbe asserire, in riferimento al lessico di Ruggero Eugeni, che oltre a un “ingresso nelle immagini” come quello reso possibile dall'interattività, si arriva ben presto a parlare di un “ingresso nell'alterità” delle stesse immagini, e quindi nell'alterità delle sagome che le abitano. Prendiamo qualche esempio per definire meglio ciò di cui stiamo parlando e accennare a quello che assume a tutti gli effetti le sembianze di un percorso, di uno sviluppo emancipativo.
Innanzitutto parliamo di un Altro nemico: l'ostacolo, l'avversario muto, la forza che si oppone al movimento del giocatore (come un qualsiasi Goomba in Super Mario) coincide in questo senso all'Altro nella prima fase dell'indagine di Deckard: esso è un mezzo, la sua sconfitta non è che il modo per raggiungere una ricompensa finale (sia essa la fine del gioco o l'incasso di un compenso nel caso del nostro cacciatore di taglie) e d'altra parte non gli è dato di possedere alcun background, alcuna profondità, alcuna interiorità. È uno sconosciuto che a malapena sembra un personaggio, che piuttosto somiglia a un oggetto animato che non può far altro che danni (e riferirsi agli androidi è superfluo).
Ci sono opere videoludiche in cui la natura dell'Altro è più complessa e sfaccettata, in cui lo scontro non cessa d'esser presente ma inizia a tingersi di una certa ambiguità, di uno straniamento etico (è giusto quello che sto facendo?): è questo il caso di videogiochi come Shadow of the Colossus o Dark Souls, esperienze tanto profonde quanto complesse, che si prestano a più livelli di lettura dei quali solo i più superficiali ammettono ancora il canonico “uccidi il nemico per raggiungere uno scopo”. Specchiano la fase centrale dell'indagine di Blade Runner: un momento in cui l'incontro non si è ancora compiuto, ma in cui si capisce che qualcosa non va, che qualcosa non è chiaro, che c'è qualcosa che sfugge nella concezione dell'Altro e delle sue azioni.
Infine si arriva all'incontro: è rilevante che esso non parta più dal presupposto del conflitto, ma che lo ammetta solo come possibile declinazione. Un titolo rilevante da questo punto di vista è senza dubbio l'Undertale di Toby Fox, in cui ogni singolo personaggio che l'utente trova sul proprio cammino è caratterizzato da un passato e da desideri, per quanto semplificati, e invita a essere conosciuto e non solo eliminato. L'immagine-mondo non è più solo meramente spaziale: al suo interno si muovono alterità tanto profonde quanto affascinanti e conoscibili. Entrambe le testualità (videoludica e cinematografica) lavorano allora in questo senso sull'immagine dell'Altro: un'immagine che non può più essere solo un mezzo, ma che costringe lo spettatore o l'utente a percepirla come fine ultimo dell'esperienza, fruitiva o interattiva che sia. Perché, del resto, “I've seen things you people wouldn't believe” presuppone che chi parla veda, ricordi e soffra esattamente come chi ascolta.