Per il film di un regista la cui leggenda si fonda sui rapporti impossibili con gli studios, Blind Husbands (Mariti ciechi, 1919) gode fama di produzione relativamente serena. L’esordio alla regia di Erich von Stroheim, poco prima messosi in luce nei panni del perfido ufficiale teutonico in The Heart of Humanity (1918) ottenne uno straordinario successo di pubblico, e resta l’unico film che l’autore riuscì a completare secondo la propria volontà. Ma è facile vedere le prime increspature dietro la superficie luminosa dei suoi scenari alpini. La Universal mise in piedi una martellante campagna pubblicitaria, necessaria a compensare un budget che nelle mani del giovane regista cresceva giorno per giorno. Ansioso di mettere a frutto l’attenzione maniacale per il dettaglio assorbita sui set di maestri come Griffith, Stroheim andava già trasformandosi nell’uomo che i produttori (e non solo il pubblico) avrebbero amato odiare, un talento tanto insostituibile quanto ingestibile e straripante.
Se i mezzi ancora limitati precludono a Mariti ciechi il titanismo dei lavori della maturità, il film può dirsi la matrice narrativa e tematica di gran parte dell’opera di Stroheim, a partire da quel Femmine folli (1922) che ne rappresenta quasi un remake in scala 10:1. Al centro di tutto si staglia la sua figura divistica, venuta alla ribalta in risposta alla richiesta di villain mitteleuropei nell’atmosfera anti-germanica del primo dopoguerra. Stroheim interpreta il viscido tenente austriaco che insidia la moglie di un medico americano in vacanza a Cortina d’Ampezzo. Lei gli è devota, ma il bravo dottore è un “marito cieco” che la dà per scontata, e piano piano la ragazza inizia a cedere alle attenzioni del seduttore europeo. I nodi vengono al pettine quando il tenente e il dottore danno la scalata al Pinnacolo (titolo originale dello script), cioè il picco più pericoloso delle Dolomiti, luogo verticale di ascesa al cielo e ideale giudizio morale.
Il triangolo fra la moglie americana annoiata, il marito assente e l’“altro uomo” – come viene telegraficamente identificato il personaggio di Stroheim – è un caposaldo di Hollywood fra gli anni Dieci e Venti. A quell’epoca ambigui sex-symbol come lui, Rodolfo Valentino e Sessue Hayakawa solleticano le fantasie del pubblico femminile col loro allure esotico, lussuoso e raffinato, dove il senso di sfida alle rigide norme etniche e sessuali dell’America edoardiana si accompagna all’euforia legata al boom del turismo e dei consumi sartoriali. Su questo macro-fenomeno si innesta la vicenda personale di Stroheim, che vi proietta la sua passata esperienza di immigrato europeo al servizio di esponenti dell’upper-middle class americana. L’uomo “altro”, alieno, nemico in guerra, abbraccia il proprio anti-mito e lo indossa feticisticamente come un paio di guanti candidi per arrivare alle alte sfere di Hollywood.
Definito da Richard Koszarski “il più impressionante e significativo debutto nel cinema hollywoodiano fino all’arrivo di Orson Welles”, Mariti ciechi mostra un esordiente in pieno possesso dei propri mezzi espressivi. Vi si trovano già la qualità tridimensionale delle scene d’insieme, la suggestione dei contrasti buio-luce sottolineati dalle diverse tinte della pellicola (digitalmente restaurate a partire dalle indicazioni di sceneggiatura), la profondità di campo delle composizioni in interni, l’uso espressivo e simbolico delle location naturali.
Soprattutto, come poi in Femmine folli, c’è la presenza dell’intertesto letterario, della narrazione nella narrazione: in una scena i due protagonisti maschili trovano raccontato su un cartello un episodio adulterino che presagisce i successivi sviluppi del film, il quale peraltro si presenta nei credits come tratto da un romanzo dello stesso Stroheim. Travestendosi da letteratura il cinema inizia a legittimarsi come arte, ma intanto si sta già guardando allo specchio.