Dopo la visione di Blonde di Andrew Dominik — che segue due intensi documentari su Nick Cave e che si può vedere su Netflix, dopo la presentazione veneziana — resta una sensazione di incompiuta elaborazione. Certo, adattare le 700 e passa pagine del romanzo di Joyce Carol Oates su Marilyn Monroe significa inevitabilmente mettere molta carne a cuocere. Ma oltre alla mole para-biografica, c’è un lavoro di regia ambizioso e volutamente problematico che necessita di riflessioni più profonde.
Di fatto, Blonde si snoda ai nostri occhi come la storia di Marilyn dall’infanzia fino alla morte prematura. Nel 1933 la piccola Norma Jeane combatte con i fantasmi di una madre tormentata e scende a patti con l’assenza del padre (descritto come un pezzo grosso di Hollywood e del quale non resta che una foto appesa al muro). La schizofrenia e le paranoie incontrollabili della madre condurranno Norma in orfanotrofio, mentre i traumi infantili si trasformano nella lente con cui osservare gli anni a venire.
I servizi fotografici, il provino per La tua bocca brucia (Don’t Bother to Knock), le molestie sessuali, il ménage à trois con Charles Chaplin Jr. ed Edward G. Robinson Jr., i matrimoni con Joe DiMaggio e Arthur Miller, la dipendenza dai barbiturici. Le tappe — vere, false o solo suggerite — della vita di Norma (Marilyn, sotto le luci della ribalta) vengono filtrate da Dominik mediante l’illusione, accentuata con ogni espediente possibile. È così che il “realmente accaduto” si mischia al verosimile e all’immaginifico, concentrandosi più sul percorso psicologico del personaggio che sulla sua cronistoria. E mentre la brava Ana de Armas resta al centro della scena ricalcando le mosse, le smorfie e gli automatismi riconoscibili di Marilyn, Dominik estremizza i tormenti di Norma attraverso un contrasto spiazzante.
La cosa che più si fatica a rincorrere è il costante cambio di registro. Dominik sembra voler decostruire il genere del biopic prediligendo una tensione costante, immergendo a fondo lo spettatore nei tormenti del personaggio. Ma l’utilizzo di formati sempre diversi (dal 16:9 al 4:3, passando per repentini slanci verticali), quello sincopato e arbitrario del bianco e nero, restituiscono un approccio ambizioso che non resta sempre al servizio della messa in scena. Non c’è dubbio che la regia di Dominik si palesi come libera, slegata dalle strutture predeterminate di un film classicamente biografico. Eppure questo gioco incostante finisce per fermarsi a metà strada tra l’esorcizzazione e il tradimento, lasciando un retrogusto amaro che abortisce entrambe le possibilità.
Blonde sembra quindi indeciso sulla strada da intraprendere, in bilico tra il percorso orrorifico (già magistralmente battuto da Larraín con Spencer) e quello squisitamente narrativo. La scelta di privilegiare il punto di vista di Marilyn non raggiunge le potenzialità di una provocazione “alt(r)a”, ma si blocca spesso, tragicamente, in superficie. I momenti più riusciti sono forse quelli più tetri e grotteschi, quelli in cui lo sguardo di Marilyn e dello spettatore si incrociano, finendo anche per coincidere. Sono i momenti più squisitamente finzionali, quelli in cui il “cerchio di luce” (il flash di una macchina fotografica, una luce di scena, la lampada della sala operatoria) illumina Norma Jeane, allungando a dismisura le ombre della sua disarmante emotività.
Se il ritmo del film è appesantito da un carico di metafore e allusioni fin troppo esibite, il merito di Dominik è sicuramente quello di frammentare la metà oscura di un immaginario, in odore di Hollywood Babilonia. C’è una scena puramente “iconoclasta” che immagina Marilyn e JFK durante un momento di violenta sessualità: il presidente è steso sul letto con una panciera che gli cinge il ventre, mentre la sua eccitazione viene scandita dalle immagini in TV de La Terra contro i dischi volanti (Earth vs. the Flying Saucers). Nel momento dell’orgasmo, un UFO colpisce il Monumento a Washington.
Qui a Venezia, la scena strappa un nutrito numero di risate, sommesse e sguaiate, finché il volto di Marilyn intento a subire il rapporto non viene trasposto su uno schermo cinematografico. La sala si ammutolisce. La colonna sonora ambient di Nick Cave e Warren Ellis (qui non proprio in forma smagliante e in continua citazione del Badalamenti di Twin Peaks) contribuisce a smascherare l’inganno: non è il mito a essere demolito, ma la donna.
Da bambina non voluta ad attrice più desiderata nella storia dello star system: la Marilyn di Dominik è parte lesa di un ingranaggio che la tratta convenientemente come un pezzo di carne. Tragica, sottomessa, ma in costante ricerca della luce dentro di sé. E come Marilyn rincorre ciò che brilla nel profondo, Dominik insegue lo spazio femminile del romanzo in un’epopea perversa di sogni infranti, il canto — sghembo, ma appassionato — di chi è vittima della propria immagine.