C’è un che di pioneristico nella delineazione del personaggio di Cainà, protagonista dell’omonimo film di Gennaro Righelli del 1922: la ragazza che vuole fuggire da una condizione familiare e sociale tradizionale, che vuole andare lontano perché “piena di nostalgia per una terra sconosciuta”, è una figura piuttosto atipica nel panorama cinematografico di quegli anni, dove i ruoli dei personaggi femminili erano polarizzati prevalentemente sul melodramma amoroso (anche nel ruolo attivo di protagoniste o di femme fatale) o sull’azione estremamente dinamica delle spie o delle sportive.
La vicenda di Cainà non è mossa da un interesse sentimentale o economico ma da una spinta interiore. Presa da una smania che sa di saudade, sente troppo stretta la vita di campagna della sua famiglia. L’accudimento delle capre non le basta, sebbene sia felice quando può correre “libera e selvaggia” insieme a loro: lei desidera l’avventura, vuole lasciare la Sardegna e “vivere”. Così, sale di nascosto su una nave diretta in Corsica.
Tra i meriti da attribuire alla regia di Gennaro Righelli per questo film c’è sicuramente la riuscita corrispondenza tra la protagonista e la rappresentazione del paesaggio: come le “montagne inondate dal sole” riflettono l’arsura esistenziale di Cainà, così il moto delle onde nella baia rispecchia l’inquietudine della giovane che, stagliandosi sola (e piccola) contro il “fantastico panorama dei Giganti della Sardegna”, manifesta il suo senso di oppressione e il suo anelito alla libertà, visivamente esplicitato dalle meravigliose inquadrature del mare visto dall’alto. L’apice di questa ricerca psicologico-figurativa è raggiunto nella sequenza della tempesta, magistralmente girata e montata, in cui la potenza del mare ingrossato si alterna ora alla disperazione della madre di Cainà ora all’euforia quasi incontenibile della ragazza che finalmente sente di assaporare la vita per la prima volta.
L’interpretazione di Maria Jacobini (anche co-autrice del soggetto insieme ad Adriano Piacitelli e futura moglie di Righelli) è assai convincente, carica di pathos senza sfociare nell’eccesso, e contribuisce nettamente a dipingere un personaggio forte e sfaccettato: “degenerata” e “maledetta” agli occhi della madre che la ritiene causa della morte del marito, “disgraziata” per i compaesani, lei si definirà semplicemente “sfortunata”. La sua fuga infatti non l’avrà portata verso la tanto agognata libertà, ma verso una nuova, differente prigionia, per scappare dalla quale sarà stata costretta a prendere nuovamente la via del mare.
Un altro aspetto che merita di essere messo in luce per sottolineare l’importanza di Cainà nella storia del cinema è il suo valore etnografico. Come evidenziato da Andrea Meneghelli, nel panorama dei film italiani dei primi anni del Novecento “spicca l’assenza di immagini cinematografiche dedicate al territorio sardo”. Cainà assume quindi grande valore anche in quanto testimonianza visiva della Gallura, sia a livello paesaggistico sia culturale. Gli abiti (peraltro meravigliosi), le coreografie delle danze, le case costruite in pietra, l’usanza del “piangere i morti”: tutto viene offerto al nostro sguardo di oggi come se fossimo davanti a un documentario.
Righelli, noto per aver diretto Abbasso la miseria! (1945), Abbasso la ricchezza! (1946) nonché il primo film sonoro italiano (La canzone dell’amore, 1930), riesce dunque a coniugare in Cainà il filone del verismo con quello psicologico, realizzando un film che davvero merita di essere riscoperto.