Marco D'Amore torna a Napoli (se ne era forse mai allontanato?) per il suo terzo lungometraggio alla regia, Caracas. Riparte questa volta dal romanzo Napoli Ferrovia di Ermanno Rea, per raccontare le storie prima parallele e poi intersecate di un celebrato scrittore, che torna nella città natia ormai anziano e deciso a non scrivere più, e di un giovane squadrista di estrema destra – il Caracas eponimo del titolo – che passa dai raid notturni contro gli immigrati ad avvertire una chiamata spirituale verso la religione islamica.
Nei panni dell'uno troviamo Toni Servillo, vecchia conoscenza di D'Amore dai tempi delle prime esperienze attoriali di quest'ultimo nei Teatri Uniti, e in quelli del secondo il regista stesso, in un ruolo accomodato rispetto al romanzo, dove il personaggio aveva 55 anni. Oltre a loro sullo schermo tantissima Napoli, evidente compulsione di D'Amore e protagonista assoluta della sua opera seconda, il documentario Napoli magica.
Il Caracas cinematografico spurga il romanzo di Rea della parte politica, e ne enfatizza invece il sostrato di malinconia e rimpianto tipici dello scrittore, già al centro di un altro adattamento di una sua opera per il grande schermo, Nostalgia di Mario Martone. Il regista costruisce un film puzzle, con un senso di mistero impenetrabile su cosa sia vero e cosa solo immaginato, miscelando scoppi di violenza parossistica e un andamento trasognato. L'effetto finale è, per chi guarda, a tratti suggestivo a tratti semplicemente confuso.
D'Amore ricerca in maniera quasi ossessiva una risposta emotiva dello spettatore. Dimostra un buon occhio registico (si veda l'eccitante scena d'apertura del lancio col paracadute) e una mano piuttosto sicura, con l'eredità della serie Gomorra che lo spinge a un approccio visivamente ricercato e di ambizione internazionale, come già ne L'immortale. Il suo stile narrativo è però qui infarcito di troppi punti esclamativi e, per quanto si tratti di un registro omogeneo alla contemporaneità, ciò non giova all'evidente ricerca di una singolarità autoriale.
Alla fine, forse proprio per la fatica di uscire dall'universo Gomorra, il torto maggiore viene fatto proprio a Napoli. Che nelle intenzioni del film vorrebbe sembrare un luogo perturbante di convivenza degli opposti, di marciume e vitalità, una sorta di stato d'animo irrisolvibile – qualcosa che recentemente sono riusciti a fare mirabilmente sia Andrea Di Stefano in L'ultima notte di Amore per Milano, che Stefano Sollima in Adagio per Roma – e invece ne esce come un banale cliché: di perpetua malavita e ferocia, di pioggia incessante (ma davvero, a quelle latitudini, così tanta?), di giovani corpi bellissimi e vetuste case fatiscenti.