"Sono vendetta"
Batman
Ci vorrebbe una guida all’interpretazione e organizzazione spazio-temporale del mondo super-eroistico cinematografico degli ultimi quindici anni. E qualcosa del genere esiste, soprattutto per il complicato universo Marvel, con mappe concettuali e infografiche, ma molto più stratificate e complesse e soprattutto in continuo divenire: la loro particolarità risiede, infatti, nell’essere trans-mediali, con storie, trame e personaggi che si influenzano a vicenda da un medium all’altro. Per la squadra fumettistica targata invece DC Comics il destino è sempre stato molto altalenante.
Se Superman ha avuto una discreta fortuna sia televisiva che cinematografica, soprattutto se si pensa alla mitizzazione che ha subito con l’interpretazione del bravo ma sfortunato Christopher Reeve; per il personaggio di Batman la storia è molto più complessa. Al personaggio creato da Bob Kane e Bill Finger si sono susseguiti sempre diversi e complicati approcci, a partire dall’originale saga televisiva a metà degli anni Sessanta che ha fatto storia con le inquadrature delle onomatopee disegnate in colori pop, passando per fumetti, serie animate, videogiochi, lego (e film lego) dedicati.
Per il cinema invece non solo si sono susseguiti diversi attori nel ruolo del personaggio mascherato, ma soprattutto diversi registi che ne hanno, in parte minore o maggiore, modificato l’epica, provando sempre a ragionare su un aspetto fondamentale: Batman è l’unico supereroe senza superpoteri; le sue abilità derivano da una capacità straordinaria nella creazione di strumenti d’attacco e difesa ultratecnologici che possono proteggerlo, ma non renderlo immune. Nonostante il suo corpo possente, Bruce Wayne è un mortale, soprattutto perché sensibile agli attacchi dell’emotività, dell’amore, del Passato. Questo aspetto, fondamentale, è altamente evidente (e ben sviluppato) nel nuovo capitolo dedicato all’Uomo Pipistrello e che deve parte della sua poca potenza (drammaturgica soprattutto) al suo tormentato iter produttivo: pensato all’inizio per essere scritto, diretto e interpretato da Ben Affleck (non amatissimo dai fan) che ha mollato il progetto per problemi di sceneggiatura.
Al timone è stato così chiamato Matt Reeves, noto ai più per aver diretto due episodi della saga de Il pianeta delle scimmie, ma purtroppo meno noto per aver diretto un interessante prodotto ibrido come Cloverfield. È proprio di questo film che molte linee visive provengono: nonostante il cambio di direttore della fotografia, il Batman di Reeves non è nell’ombra, ma è parte integrante dell’ombra. Anzi in alcuni casi la fagocita. Le atmosfere, a metà tra dark estremo e citazionismo puro, sono infatti la parte più interessante di questo lungo nuovo capitolo dedicato al personaggio DC.
L’impressione è che nelle lunghe tre ore del viaggio nelle prime scorribande di Batman (anzi, The Batman, l’articolo del titolo è altamente significativo, quasi a indicarne allo stesso tempo singolarità e pluralità: di azione, di interpretazione e, perché no, di genere maschile/femminile) lo spettatore debba fare fatica a scrutare nell’ombra, con gli occhi sempre semichiusi, a cercare uno spiraglio, un movimento, un rumore. La luce è totalmente assente, se non per i lampioni notturni (e che mettono sempre in dubbio: è sicuro che ciò che viene illuminato ha valenza di Verità?); mentre le stesse scene girate non in notturna presentano un cielo plumbeo, gonfio di nuvole grigie, che non danno scampo a nessun tipo di spiraglio.
Questa componente di cupezza è enfatizzata dalle scenografie e dall’interpretazione di un ombrosissimo Robert Pattinson, che richiamano chiaramente il cinema espressionista tedesco, ancorandosi in parte a quella visione estremizzata che ne aveva data Tim Burton nel primo film della saga, nel 1989. Si pensi al trucco e all’acconciatura del protagonista, che richiamano chiaramente la fisionomia dell’attore Conrad Veidt, de Il gabinetto del dottor Caligari o a certe architetture del castello di Bruce, sorta di surreale castello delle fiabe.
Se purtroppo la durata eccessiva, alcuni frammenti narrativi totalmente scollegati tra loro, la fin troppo dichiarata questione di appartenenza etnica (il tenente Gordon è di colore, così come Catwoman, una Zoë Kravitz troppo somigliante, per stile, recitazione, costumi e fisionomia alla più nota Halle Berry del film di Pitof del 2004) e la parvenza da Sherlock Holmes movies indeboliscono il film, dall’altro lato Reeves riesce a dare un tocco molto particolare ad una delle questioni che da sempre hanno fatto la sfortuna di Batman: il suo passato.
Anche in questo caso è tutto concentrato nel colore oscuro della fotografia di Greig Fraser (che regala lampi geniali: come la lotta illuminata dai colpi di mitra, che sembra girata addirittura in stopo motion) e nell’utilizzo originale della partitura musicale curata da Michael Giacchino, che non solo lavora sul “classico” con una rivisitazione parziale dell’Ave Maria di Schubert, ma punta anche a dare una modernizzazione del mito dell’eroe mascherato, rendendolo ancora più rock e tormentato, accompagnando parte del suo cammino sulle note di Something in the Way dei Nirvana: "gli animali che ho intrappolato sono diventati i miei animali domestici" recita il brano. Ma dove finisce l’istinto animale e quello umano? Che ruolo (fondamentale) gioca nel personaggio DC e nel suo nemico (un Enigmista/Paul Dano riuscitissimo e che riflette in maniera particolare anche sull’utilizzo dei social network in campo politico)?
Sono questi gli interrogativi più interessanti che alza il film di Reeves, oltre il buio nel quale cerca, costantemente, per più di 175 minuti, cerca di intrappolarci. Forse basterebbe semplicemente aprire completamente gli occhi.