Provare a scrivere e raccontare di C’era una volta in America, il film epico di Sergio Leone, è impresa ardua e tormentata per chi, come me, ne ha fatto il film della vita. Ma allo stesso tempo, è bello apprendere che dopo 40 anni, L’America di Leone non ha perso nulla della sua potenza (offerto per la prima volta in 4K, facendo rivivere in veste integrale anche le scene precedentemente tagliate). L’epicità non è qualcosa che si consuma con gli anni e, allora, che queste quaranta candeline possano non far spegnere la folgorazione per coloro che per la prima volta inizieranno questo viaggio, come quella di un quadro che si crede di aver visto da sempre.
Da sempre, quest’opera di circa 3 ore e 49 minuti, mi richiama Flaubert quando dice che “in arte non bisogna mai aver paura di essere esagerati. L’esagerazione deve essere continua, proporzionale a sé stessa”. Dalla lavorazione, tra le più lunghe della storia del cinema (inizio giugno 1982 per concludersi nel marzo-aprile 1983) per un totale di nove mesi di riprese, alla dichiarazione altera dello stesso regista: “C’era una volta in America sono io”. E ancora: l’ossessivo squillo del telefono all’inizio di un piano-sequenza sonoro; i singhiozzi di Deborah (Elizabeth McGovern) violentata da Noodles (Robert De Niro) in auto, mescolati con le strida dei gabbiani; il Cantico dei Cantici; il rumore del metallo sulla porcellana, nella sequenza di un minuto della tazzina di caffè. Basterebbe solo questo per augurare allo spettatore una buona visione e, invece…
“Che hai fatto in tutti questi anni?” Arriva subito dopo mezz’ora di film, trentacinque anni dopo, nel quartiere ebraico di New York dove tutto è avvenuto. Succede tra l’amico Fat Moe e Noodles, succede tra noi e Sergio Leone, che carica l’orologio e rimette in moto il Tempo. Una frase, “la” frase, che abbraccia un arco di quasi mezzo secolo e si svolge in tre momenti: 1922-23, quando i protagonisti sono ragazzini nella dura scuola della strada nel Lower East Side di New York; 1932-33, quando diventano veri e propri giovani gangster; 1968, quando Noodles ritorna da quelle parti, alla ricerca del tempo perduto.
Leone cerca di rispondere alla domanda che si è posto, quando ha finito di leggere il libro Mano Armata (The Hoods). Che ha fatto Noodles in tutti questi anni? Ma soprattutto, cosa aveva in comune il regista italiano con un romanzo di quattrocento pagine firmato da Harry Grey, il suo creatore, che nasce dalle memorie di David Aaronson detto Noodles (in yiddish, “bella testa”) gangster ebreo di mezza tacca?
“C’era una volta in America sono io". A dodici anni dalle riprese di Giù la testa, l’incipit del nuovo progetto inserito nella cosiddetta “Trilogia del Tempo” si apre con la rappresentazione del Teatro delle Ombre Cinesi. Dentro la fumeria d’oppio, Rama e Ravana duellano in uno spettacolo proiettato sul muro, materia prima del cinema. La lotta tra il Bene e il Male. I buoni e i cattivi, i duelli, da sempre principale fonte d’ispirazione nel cinema di Leone.
C’era una volta in America siamo noi. O, anche, chi ha già vissuto molte vite. Il passato visto dal futuro e il futuro visto dal passato. Ci siamo anche noi insieme a Noodles a succhiare dalla pipa il fumo del sogno, andando a letto presto per sfuggire ai fantasmi che ognuno di noi ha dentro, quelli dell’amore non corrisposto, della violenza, dell’amicizia, del tradimento, della vendetta, dei fallimenti e dei rimpianti.
C’è sempre “una porta su retro” per sopravvivere, andarsene e cambiare... Noodles fugge dal teatro cinese da una porta sul retro; entra nel locale di Fat Moe da una porta sul retro; incontra Deborah passando dalla porta sul retro; il Senatore Bailey gli dice di scappare via dalla porta sul retro dopo averlo ucciso, ma non lo fa. C’è una porta alla quale non possiamo sfuggire, il Tempo. Il ricordo.
“C’era una volta…”